Marco Ansaldo non c’è più, l’ha pugnalato il destino. Un mese fa era andato in pensione dopo 23 anni vissuti a La Stampa e per La Stampa («ma sono ancora un esodato, non date via la mia scrivania»): ha scritto di Olimpiadi, di Mondiali, di Juve ma anche di pallapugno, di campioni e di brocchi, di vittorie e di sconfitte. Gli piaceva graffiare i forti, aveva cura, con la sua scrittura secca e analitica, nel proteggere i deboli. Raccontare Marco per chi come noi ha lavorato al suo fianco, per chi come noi l’ha sentito nell’ultima sera della sua vita («sto pulendo i funghi») è risalire un fiume dalle acque tempestose come il suo carattere. Faticoso, spigoloso. Marco non era mai contento di quello che faceva, almeno diceva così. In quel momento, telefonata o chiacchierata che fosse, bisognava lasciarlo sfogare, accogliere le sue lamentele e pensare già a come ripartire sicuri che anche lui l’avrebbe fatto. E infatti poi, puntuale, arrivava il pezzo giusto. Di passione o di critica, di racconto o di cronaca. Ma quello giusto.
Aveva una cultura sportiva senza barriere, la scherma era il suo giardino personale, guai a toccarglielo: la passione l’aveva ereditata dalla figlia che in pedana ci aveva passato la gioventù. Considerava il ciclismo lo sfogo estivo negli anni svuotati di mondiali o olimpiadi. E poi il calcio. «Allora Marco, sei sabato a Catania, domenica a Udine e lunedì devi partire per Madrid»: lui sbuffava come una locomotiva stanca, noi lo prendevamo in giro, ma guai a non mandarlo su quegli avvenimenti, erano la sua benzina. Critico sempre, ipercritico a volte, aveva una capacità analitica formidabile e la applicava al suo modo di raccontare lo sport. Le partite, soprattutto. Mancherà al lettore. Mancherà soprattutto a noi. Ciao Marco. (da La Stampa)
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