Calcio. L'”uomo nero” Tavecchio cancella la discriminazione territoriale

TavecchioVia le squalifiche per “discriminazione territoriale”. È il primo atto dell’era Tavecchio, quello con cui il consiglio federale ha modificato gli articoli 11 e 12 del Codice di Giustizia Sportiva ponendo fine allo psicodramma che ha funestato l’ultima stagione calcistica.

Tutto ha inizio a maggio 2013, quando il congresso della Uefa decide di inasprire le pene contro il razzismo nel calcio, arrivando a prevedere la sospensione delle partite, la chiusura di un settore o dell’intero stadio e la squalifica dei giocatori fino a 10 turni nei casi di offese a sfondo razziale. L’articolo 14 delle Regole disciplinari Uefa sanziona  infatti “chi insulta la dignità umana di una persona o di un gruppo di persone in qualsiasi modo, inclusi il colore della pelle, la razza, la religione o l’etnia”.

La direttiva è poi stata recepita dalle varie federazioni in diversi modi. La Figc, unica in Europa, ha allargato il concetto di razzismo a tutta una serie di altri comportamenti discriminatori, tra cui appunto le offese legate all’”origine territoriale” citate nel primo comma del vecchio articolo 11. Nel testo approvato oggi, la discriminazione territoriale esce da quella norma per rispuntare al comma tre del successivo articolo 12, dedicato alla “prevenzione di fatti violenti” da parte delle società: i club possono incorrere in ammende fino a 50mila euro, ma sarà pressoché impossibile arrivare alla chiusura di un settore dello stadio o dell’intero impianto come è avvenuto più volte nella stagione 2013-14.

All’immarcescibile ragionier Tavecchio va riconosciuta una bella dose di coraggio: il suo è puro buonsenso democristiano, ma è anche un taglio netto coi rituali gesuitici dell’era Abete-Prandelli e con le operazioni d’immagine sulla pelle dei tifosi che il calcio italiano ha dovuto sopportare in questi anni.

Non mancheranno le reazioni sdegnate delle penne intinte nella pece dell’ipocrisia, degli innumerevoli “esperti” che nei nostri stadi non mettono piede dal 1973 – posto che mai l’abbiano fatto. Non mancheranno i facili collegamenti con la sparata sulle banane, o magari con la tragedia di Ciro Esposito perché – si sa – passare dai cori sul Vesuvio alle rivoltellate è un attimo.

In realtà la spirale di cretinismo in cui la “discriminazione territoriale” aveva precipitato gli stadi era sotto gli occhi di tutti: basti ricordare le polemiche sulla squalifica inferta ai milanisti per aver intonato “noi non siamo napoletani” in trasferta, le multe alla Juve per le parolacce dei bambini nella curva Sud (squalificata), l’addio al calcio di Javier Zanetti davanti ad una curva interista mestamente vuota. O la geniale risposta degli ultras del Napoli a questa caccia alle streghe, con lo striscione autodiscriminatorio “Napoli colera”.

I giornali e la politica continuano a trattare la crisi del calcio come un problema di ordine pubblico, straparlando di “diffide di gruppo”, di “flagranza differita” ed altri abomini giuridici da regime militare. La verità è che non c’è un solo stadio da Bolzano ad Agrigento che si possa considerare più insicuro rispetto a dieci o vent’anni fa. In compenso sono quasi tutti più vecchi, più cari, più poveri di spettacolo in campo e molto, molto più inaccessibili per via della coltre di divieti e codicilli che li circonda.

Non c’è una ragione al mondo per cui le famiglie dovrebbero preferire un abbonamento in tribuna ad una tessera per la pay tv, a parte l’unica cosa che uno schermo al plasma non può rendere: l’atmosfera dello stadio, fatta di tifo, di colore, di emozione. E anche di ironia casereccia e di orgoglio campanilistico, senza trascendere.

Tavecchio è un impresentabile: a screditarlo sarebbe dovuta bastare la sfilza di precedenti penali accumulati negli anni, o la sua imbarazzante galleria di sponsor, da Lotito a Preziosi al padre-padrone della Lega Pro Mario Macalli. Altro che le banane di Opti Pobà. Eppure, se si guarda all’operato di chi l’ha preceduto, svuotando gli spalti e riempiendo le cronache di boldrinate, viene da citare i versi di una bella canzone da reprobi: “se tutto questo è bene, allora sì che siamo il male”. Fuori i gesuiti del pallone, ben venga l’uomo nero.

@barbadilloit

Andrea Cascioli

Andrea Cascioli su Barbadillo.it

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