Dieci anni fa, il 28 luglio 2004 moriva ad Orsigna, una frazioncina sull’Appennino, la più lontana e alta del comune di Pistoia, Tiziano Terzani.
Grande viaggiatore, giornalista, fotografo, una gran fatica per sfuggire al posto fisso in Banca Toscana (tanto auspicata dalla famiglia poverissima che aveva fatto sacrifici per farlo studiare), ma anche poeta, scrittore e ricercatore di una spiritualità che non confinava con la fede o con una pratica religiosa.
Romanticamente amante della giustizia, iscritto a Giurisprudenza con l’idea un giorno di “difendere i poveri dai ricchi e i deboli contro i potenti”; con quel bagaglio ideale e con la sua macchia fotografica fu corrispondente di guerra su fronti dove c’erano popoli alla ricerca della loro libertà. La stessa che lo aveva mosso ad occuparsi di politica europeista nel 1956 sotto la spinta della rivolta ungherese.
Sulle colline di Orsigna che in qualche foto somigliano a montagne e a foreste lontane dove era stato – tanto da sentirsi di chiamarla “la piccola Himalaia” – si stabilì in attesa della fine, ripensando e rivivendo “un mondo che non esiste più” che sarà anche il titolo di un libro postumo di sue foto e di suoi scritti, curato dal figlio Folco.
Folco e Saskia, i due figli avuti con la moglie Angela, figlia del pittore tedesco Hans-Joachim Staude, uno che aveva scelto Firenze come sua seconda patria (o terza, visto che era nato ad Haiti) trovando accoglienza negli anni ’20 in quella Villa Romana, punto d’incontro degli intellettuali tedeschi innamorati di Firenze, e nella quale era tornato nel 1945 dopo essere sceso da un camion della ritirata tedesca ormai arrivato dopo Milano, non prima di aver passato qualche mese di prigionia in campo di concentramento americano per essere stato interprete della Luftwaffe.
Terzani, con Angela e i figli dopo gli anni delle guerre, ne aveva passati altri trenta in estremo Oriente, per quelle strade alla fine ripercorse nell’ultimo viaggio, alla ricerca del perché della sua malattia, era tornato a casa con la consapevolezza di essere “leggero”, lontano dalla sua “maschera”: “Sono una cosa molto più grande, molto più piccola, molto più particolare, ma non sono niente di tutto quello. E proprio perché non sono niente di specifico, mi posso permettere di pensare che sono tutto”.
Erano ormai lontane le guerre, lontane le polemiche, le ultime con Oriana Fallaci con l’elmetto dell’intolleranza americana e anche contro il “buonismo sciocco della sinistra” a proposito del problema dell’immigrazione, al quale replicava con la confuciana massima dell’insegnare a pescare invece di dare il pesce.
Come sappiamo da “La mia fine è il mio inizio” (libro e film), tre mesi prima della morte chiamò il figlio Folco per narrargli, giorno dopo giorno, il “grande viaggio della vita” iniziato dalla sua Firenze, non al telefono che odiava, ma assieme, innanzi allo spettacolo della piccola Himalaya pistoiese.