Libri. “Almirante. L’italiano d’Italia” di Montonato: in piedi tra le rovine per costruire

almirantePubblichiamo un estratto della biografia “Almirante. L’italiano d’Italia” – Eclettica Edizioni (tel. 0585254409, mail  info@ecletticaedizioni.com), euro 15 – curato da Gigi Montonato.

È dalla fine che si racconta la storia degli uomini degni di essere ricordati. La morte di un uomo, che in vita ha ben meritato, è un’altra nascita, cui non seguirà più morte, poiché di quell’uomo tramanda le imprese memorabili.  Giorgio Almirante morì il 22 maggio del 1988. La sua non fu una scomparsa improvvisa; era stato colpito da una leggera ischemia cerebrale nel 1984. Ebbe una ricaduta due anni dopo, nel 1986, e fu sottoposto, per questo, ad un delicato intervento chirurgico in Francia. Non felice, purtroppo. Per donna Assunta il suo Giorgio glielo uccisero. Racconta di aver sentito i medici, che si apprestavano ad operarlo, dire «in quell’ultima stanza c’è il capo dei fascisti italiani!».

Eccezionale amore di donna, che non si rassegna al fatto che una morte ordinaria possa uccidere un uomo straordinario, il proprio uomo; o sindrome di chi trascorre una vita in continuità di minacce e di aggressioni.

Per troppi anni Almirante era stato preso di mira, insultato, minacciato, processato, perseguitato; col pretesto dell’antifascismo. «Eravamo terrorizzati – dice donna Assunta – Andavamo in giro in Italia o all’estero e vivevamo con l’ansia addosso e la costante preoccupazione di aggressioni. […] Per me era una sofferenza. Non era mai un viaggio di piacere ma …un calvario».

La vita di Almirante era trascorsa davvero “pericolosamente”. La medesima sorte era toccata ai suoi famigliari, ai militanti e perfino ai simpatizzanti del suo partito. In “Cuori neri” Luca Telese ha ricostruito le vicende di morte di ben 21 missini uccisi, da Ugo Venturini (Genova 1970) a Paolo Di Nella (Roma 1983). Migliaia i feriti in attentati, scontri, agguati, pestaggi. Non esagera chi sostiene che in Italia la guerra civile, iniziata con Salò, è continuata per sessant’anni, con una recrudescenza dalla fine degli anni Sessanta in poi. È così anche per Giovanni Pellegrino, che, essendo stato Presidente della Commissione Stragi, ha avuto la possibilità di conoscere segreti e risvolti di uomini, fatti e circostanze.

Piero Buscaroli, uno dei più raffinati intellettuali di destra, ha più volte detto di essersi sentito nell’Italia post/antifascista un sopravvissuto in territorio nemico. Per i “fascisti” l’Italia, nata dalla Resistenza, è stata territorio nemico; nei limiti di un pudore democratico formale del potere, che vedeva e, pur senza approvare, lasciava che le cose si svolgessero come al momento conveniva. Ai “fascisti” venivano attribuite le violenze politiche che un po’ dappertutto scoppiavano nel Paese, mentre in realtà erano loro che il più delle volte le violenze le subivano, altre volte le consumavano in un clima di attacchi e di ritorsioni. Negli anni caldi della contestazione e del terrorismo, Sessanta e Settanta, sui muri urbani si leggevano scritte come “fascisti carogne tornate nelle fogne”, “uccidere un fascista non è reato”, “faremo rosse le nostre bandiere col sangue delle camicie nere”. Un linguaggio minaccioso e truculento. Le piazze di gran parte dell’Italia centro-settentrionale erano loro precluse.

Non erano violenze episodiche ma sistematiche e continue nel quadro di un antifascismo militante e di regime, per cui chi non era un antifascista secondo la vulgata di sinistra andava emarginato ed escluso. L’antifascismo come ontologia e assioma, ma anche come opportunità di entrature politiche e di carriera. Il reato di apologia di fascismo non risparmiava neppure chi non accettava la storiografia “unica” e assumeva una posizione diversa configurando appunto il reato di apologia di fascismo. Nessuno potrà mai rendersene conto appieno se non chi quella condizione l’ha subita in continuità di anni e di eventi.

Di aggressioni Almirante ne subì un’infinità. A Livorno, terra di antifascisti arrabbiati, in una delle prime campagne elettorali del dopoguerra, dovette scappare per sottrarsi all’assalto di centinaia di picchiatori avversari. Buon per lui che il comizio lo teneva prudentemente dal cassone di un autocarro; alla malaparata, scappò via. Un’altra volta a Roma, alle Amministrative del 1947, fu salvato dal direttore del “Tempo” Renato Angiolillo, che lo sottrasse agli scalmanati avversari nel suo palazzo di Piazza Colonna.

«È una lunga storia – racconta Almirante al giornalista Sebastiano Messina – che voglio riprendere dal 1947, da quando io parlavo di pacificazione nazionale e sembrava una follia. C’era una campagna elettorale, Michelini mi disse: bisogna fare i comizi. E io, che nulla sapevo di democrazia, affittai una camionetta e andai a S. Giovanni, a Roma, per spiegare in piazza il decalogo che avevamo ereditato dalla Repubblica Sociale. Ad aspettarmi c’erano un centinaio di comunisti. Tutti fermi, ci guardavamo senza muoverci. Poi dissi “Cittadini”. Non dissi altro, parlarono loro urlandomi: “Fascista” e mi cacciarono via a pedate nel sedere. Andò avanti così per 29 giorni su 30 della campagna, 29 giorni di calci nel sedere. Al trentesimo, a Piazza Colonna, quasi per miracolo stavo riuscendo a parlare. Ma da Montecitorio uscirono Pajetta e Pacciardi. Pajetta tentò di staccare i fili del microfono, gli fu impedito e lui corse in aula gridando: “I fascisti a Piazza Colonna”. De Gasperi in persona chiese al ministro degli Interni Scelba di sciogliere il comizio e arrivò il Primo reparto celere».

Così per gli anni a venire. Ogni suo comizio era caratterizzato da incidenti, tanto che Flaminio Piccoli, segretario della Democrazia Cristiana, una volta disse in televisione, con cinico filisteismo, che se dappertutto Almirante era atteso per essere picchiato la colpa non era degli altri ma sua, per il suo essere quel che era.

Almirante non era quel che si può dire un violento, uno cioè pronto a menar le mani come altri del Msi. Anzi, era di indole decisamente opposta. Eppure fu suo destino vivere con violenti, averli accanto e di fronte. Un capitolo della sua Autobiografia di un “fucilatore” lo dedicò alla violenza; ovvio violenza politica. Più di una volta scampò al linciaggio, più di una volta fu salvato da qualche rappresentante delle forze dell’ordine, altre volte addirittura da avversari politici, come a Cuneo, dove un comandante partigiano per convincere i suoi a smetterla di picchiarlo disse loro che l’ordine era di dargli una lezione, non di ammazzarlo. Botte anche nella Camera dei Deputati.

Una volta, per soccorrere il collega di partito Franco Franchi che stava avendo la peggio nei tumulti che erano scoppiati tra comunisti e missini, fu gettato a terra e travolto; fu sottratto al peggio da Pino Romualdi. Una foto del 16 marzo 1968 lo ritrae perfino sorridente sulla scalinata della Facoltà di Giurisprudenza alla Sapienza di Roma attorniato da numerosi giovani, missini e non, armati di spranghe; ma sembra più una foto ricordo che la scena di una battaglia. È bensì vero che nella stessa circostanza Almirante fu aggredito dai giovani comunisti, come documentano altre foto.

All’occasione, però, non si sottraeva a misurarsi cavallerescamente, come si usava una volta. Nell’ottobre del 1956 si sfidò a duello con Vanni Teodorani, nipote di Mussolini. I due si erano accapigliati per contrapposizioni politiche ed eccessi verbali: incrociarono le lame e finirono entrambi feriti.

Purtroppo non era preso di mira soltanto nelle manifestazioni politiche ma anche in circostanze del tutto normali e pacifiche e quel che è più grave quando era in compagnia della moglie. Perfino in tempi più recenti non mancarono nei suoi confronti atti di incivile intolleranza, come quando, in un autogrill presso Bologna, a Cantagallo, i dipendenti dell’area di servizio si misero tutti in sciopero per non servire il pranzo né a lui né al suo seguito; e alla colonna di benzina gli negarono il pieno. Un’altra volta alla stazione di Firenze, dove Almirante con donna Assunta si era recato per visitare una mostra d’antiquariato, appena riconosciuto, fu fatto oggetto di insulti, ingiurie e minacce, mentre alcuni erano saliti sul treno per convincerlo a non mettere piede in città. Riuscirono a scendere per l’intervento della polizia. «A Feltre – ricorda donna Assunta – alcuni giovinastri, che ci avevano riconosciuti, in un ristorante, si misero a cantare: «Almirante ci piace di più con la testa all’ingiù», continuando con volgari contumelie. Finì, anche in quell’occasione, che dovette intervenire la polizia. Pochi esempi fra tanti, che però fanno capire il clima di persecuzione e di discriminazione subito per anni.

Almirante si considerava timido, «ma di una timidezza – scrisse nella sua Autobiografia  – ansiosa di aprirsi e di espandersi, ansiosa, per l’appunto, di essere presa per mano e liberamente esposta alla ventata, al turbamento, al confronto delle relazioni umane».

Il coraggio per affrontare le piazze, anche le più ostili e prevenute nei suoi confronti, gli proveniva dalla fiducia che aveva negli italiani «generosamente ridenti e misteriosamente assorti, in quell’impasto di gioia e di malinconia che è l’Italia, che è soprattutto l’Italia del Mezzogiorno».

Almirante non smise mai di considerare l’Italia, la sua patria, l’unico paese al mondo in cui volesse vivere; né mai pensò di allontanarsene, come spesso si sente dire oggi da tanta gente, osannata e riverita, solo perché scontenta della situazione politica del momento o delusa dal risultato elettorale. Né volle mai farsi vittima più di quanto già non fosse, né all’esterno per non dare agli avversari altra soddisfazione, né all’interno del partito, per vantare particolari benemerenze. «Non ho avuto la vita facile – scrisse nel 1972 in un articolo poi raccolto in La destra avanza – fin da quando, alle origini del Msi, mi sono gettato nella battaglia politica. Ma non ho certamente avuto vita più difficile di tanti altri uomini che hanno condiviso le stesse responsabilità. Anzi! Molti hanno pagato ben più di me. Molti hanno pagato con gravi denunce, con duri processi, con severe condanne, con anni di carcere, con lunghe privazioni dei diritti civili e politici».

Le discriminazioni e le persecuzioni di regime, come allora era recepito e chiamato il sistema politico italiano dal Msi, erano messe in conto e sopportate con pazienza calcolata e finalizzata. Una sorta di consapevole contrappasso, per essere stati fascisti, per non aver rinnegato, che era sopportato nella prospettiva di una reconquista politica, non nel senso di una restaurazione del fascismo, assurda e inimmaginabile, e forse neppure voluta, ma di una meritata legittimazione.

«Noi – dice Almirante – non vogliamo crescere, vogliamo salire». La tappa più importante era la pacificazione nazionale. «È una esigenza prioritaria – disse nel 1972 nel corso della campagna elettorale per le politiche di quell’anno – cui tutte le altre sono subordinate […] La pacificazione nazionale deve dunque essere intesa, in questo momento storico, come suprema esigenza morale; ma deve anche essere intesa come un grande fatto politico», ed aggiunse: «La pacificazione nazionale non può essere prospettata agli altri, non è per gli altri credibile, se non comincia da noi, e se non si evidenzia in tutte le nostre parole, in tutte le nostre iniziative responsabili». Ma non era remissione, rinuncia alla lotta, se questa si poneva spesso anche sul piano fisico. Di qui l’accusa di nascondere il manganello sotto il doppiopetto.

Incalzato dai giornalisti nelle tribune politiche, rispondeva sempre grato della domanda. Ad Ennio Ceccarini de “La Voce Repubblicana”, che gli aveva chiesto perché il Msi era l’unico partito in Italia e nell’Europa occidentale a difendere il regime dei Colonnelli greci, Almirante rispose secco: «A mali estremi, estremi rimedi. Noi siamo virilmente pronti ad affrontare la realtà senza ipocrisia. Qualora soluzioni anche di forza potessero salvarci dal comunismo, ben vengano le soluzioni di forza». E a Giampiero Lepore della “Tribuna politica”, che gli aveva chiesto cosa avesse voluto dire  scrivendo sul “Secolo d’Italia” che «il Movimento Sociale Italiano avrebbe provveduto da solo alla sua difesa», Almirante rivendicò il diritto di difendersi quando lo Stato non lo fa, come era accaduto a Genova, dove il suo comizio era stato attaccato  al grido di “morte ad Almirante” da oltre un centinaio di manifestanti con sassi e bottiglie molotov provocando feriti e la morte del giovane missino Ugo Venturini.

Chiedeva di essere rispettato per quel che era stato ed era, senza nulla rinnegare, ma nella consapevolezza della bontà dei valori democratici. Un sogno, purtroppo! Perché la pacificazione richiedeva l’abiura, cui Almirante non si sarebbe mai piegato. Non solo per un motivo personale, di orgoglio e di coerenza, ma perché si trattava di abbandonare al loro destino le migliaia e migliaia di giovani che erano decisi a contrastare l’avanzata comunista in ogni angolo d’Italia. Sapeva Almirante che la sua era una missione dalla duplice finalità: la conquista alla democrazia di un mondo umano e politico che senza una guida sarebbe finito alla deriva dell’estremismo e della criminalità; l’opportunità di dar voce e partecipazione a tutto un ambiente che altrimenti si sarebbe politicamente disperso, andando ad ingrossare le fila della Dc e del Pci.

Il tempo gli avrebbe dato ragione in parte. Oggi, pur fra tante incontinenze e intolleranze, cifre purtroppo dell’essere italiani, c’è una convivenza più tranquilla, un confronto politico aspro ma più sostenibile. La destra è pienamente legittimata. «Oggi chi ha gloria – ha detto donna Assunta nel citato suo libro – lo deve a chi ha sofferto. Oggi i figli dei big della Destra al governo appaiono eleganti sulle riviste trash fotografati in tight e piacevolmente attorniati da “veline” e “miss”; ieri i figli dei dirigenti della Destra all’opposizione apparivano fotografati o con la testa fracassata da catene o in manette e per nulla piacevolmente attorniati da poliziotti i quali avevano sempre sottomano un reato da attribuire. Il paradosso è che per “quei figli” di allora non c’è considerazione, mentre vengono osannati – e senza merito, se non quello di detenere l’effimero potere – i figli dei padroni di oggi».

Parole dure, ma la storia insegna come trovare in essa le ragioni dei cambiamenti, anche di quelli che possono sembrare ingiusti e ingenerosi. La politica è il motore della storia e il suo carburante sono i pensieri e le azioni degli uomini. Se oggi i giovani della Destra non vanno con la testa fasciata o con le manette ai polsi è anche merito di chi ha saputo, forzando o violando la propria coscienza, o solo assecondando il proprio istinto, creare situazioni nuove, di migliore convivenza politica, di più agiata militanza. Del resto, era nei voti di Almirante, era nelle aspirazioni di quei giovani creare un’Italia in cui si potesse stare senza sprangarsi, senza spararsi, senza uccidersi. Meriti e demeriti di ciò che è vanno sempre attribuiti a tutti, nelle giuste proporzioni.

La Destra di oggi, pienamente legittimata, profumata e in tight, è figlia della Destra di ieri, illegittima, odorante sudore e sangue, l’una non si capisce senza l’altra; dunque unicuique suum. Ma il prezzo pagato dalla Destra di oggi è stato l’abiura. Che è tanto più comprensibile in chi il fascismo non l’ha mai vissuto quanto più deprecabile per chi invece lo ha vissuto e aveva il diritto di non insultare gli ideali della sua giovinezza, del suo essere stato in assoluta buona fede figlio del proprio tempo e della propria nazione.

Non improvvisa, la morte di Almirante, ma prematura. Aveva 74 anni non ancora compiuti, essendo nato il 27 giugno del 1914. La sua ultima campagna elettorale fu quella del 14 giugno 1987. Almirante si immolò sull’altare dell’azione politica, giacché lui, già nell’estate dell’anno prima, aveva avuto una ricaduta dopo il malore dell’estate del 1984; ricoverato, i medici gli avevano prescritto di stare a riposo. Due anni prima, nel luglio 1984, aveva espresso la volontà di lasciare la segreteria del partito per ragioni di salute. Ma il partito non ne volle sapere; forse non era ancora pronto al cambio. Del resto le scadenze politiche ed elettorali erano incalzanti ed Almirante non le volle disattendere, in spirito – questo sì – ancora autenticamente fascista.

All’epoca aveva poco più di settant’anni; la sua età biologica gli avrebbe consentito di portare a compimento il guado del suo partito, di farlo giungere alla sponda della piena legittimazione. Aveva bisogno ancora di una manciata di anni, sufficiente non solo per la soddisfazione di vedere il regime, dal quale era stato pretestuosamente perseguitato, implodere, come poi sarebbe accaduto a partire dal 1992-93, ma anche per meglio posizionare il partito negli scenari che si sarebbero aperti.

La preoccupazione di Almirante non era infondata. Avvertiva che il sistema politico italiano stava per crollare, anche se per ragioni internazionali – soffiavano ancora venti di guerra fredda, il Muro di Berlino sarebbe crollato poco più di un anno dopo, nell’agosto del 1989 – c’era una sorta di accanimento terapeutico, a cui il crollo dei regimi comunisti dell’Est avrebbe posto fine.  Ma egli non pensava affatto a godersi quel momento, legittima rivalsa per un reduce di Salò. Sapeva perfettamente che in politica conta la prospettiva, che non c’è posto per inutili compiacimenti, che bisogna tenere sempre alti lo sguardo e la guardia. Perfino dopo la grande vittoria elettorale del 7 maggio 1972, davanti a centomila persone in Piazza del Popolo a Roma, volle parlare di impegno più che di ringraziamento. «L’estrema gravità del quadro politico e di costume in cui si svolge la vicenda del nostro Paese – disse – non consente e non renderebbe comunque apprezzabili discorsi di ringraziamento e di legittima celebrazione di una grande vittoria elettorale; ma richiede discorsi di impegno, in termini storici, programmatici, politici, e prima di tutto in termini umani».

È straordinario come un uomo che passa attraverso una serie di sconfitte e di rovine possa avere tanta fiducia nell’impegno e nel futuro. Almirante aveva visto crollare il fascismo due volte, aveva rischiato la pelle in tantissime circostanze, si era formato nell’utilitarismo e nell’opportunismo più becero degli uomini, sapeva che c’era un regime in Italia che mai gli avrebbe consentito di avvicinarsi al potere, eppure continuava a predicare l’impegno, ad aver fiducia negli italiani, a non darsi mai tregua.  Egli non volle mai piegarsi agli eventi infausti della storia; ma dalla storia apprese l’arte di attraversare in piedi, come in un percorso di sopravvivenza, il difficile cammino del riscatto. Non nel senso di raggiungere un traguardo di liberazione per sé, ma di vivere il percorso in ogni momento da persona libera e coerente. Non avrebbe mai tradito il fascismo, che per lui era una sorta di condizione di libertà, ma aveva un progetto politico per quegli italiani, che, non avendo conosciuto il fascismo, ma coltivando certi valori in mutate condizioni, potessero giungere a realizzarli in parità di mezzi e di speranze con gli altri italiani.

Ecco perché in chiusura della sua Autobiografia scrisse: «Voglio dire, giovani, che vi ho chiesto, e continuo a chiedervi, l’assurdo: di essere pienamente giovani e compiutamente maturi, di fondere l’entusiasmo con la saggezza, il coraggio con l’intelligenza, la naturale ansia di vincere con la consapevolezza della lunga necessaria proiezione della battaglia nel tempo. È questo il grosso discorso che la mia generazione fa alla vostra. Noi siamo caduti e ci siamo rialzati parecchie volte; e se l’avversario irride alle nostre cadute, noi confidiamo nella nostra capacità di risollevarci. In altri tempi ci risollevammo per noi stessi. Da qualche tempo ci siamo risollevati per voi, giovani, per salutarvi in piedi nel momento del commiato, per trasmettervi la staffetta prima che ci cada di mano, come ad altri cadde nel momento in cui si accingeva a trasmettercela»[22]. Un messaggio che ha una sua circolarità soggettiva, il suo fascismo; ma anche una sua linearità oggettiva: i valori ideali che nel tempo possono trovare appannamenti e approssimazioni ma mai scadenza e superamento.

Egli non ebbe mai visioni catastrofiche né ebbe simpatia per chi ne aveva, come il filosofo caro a certa destra Julius Evola, il quale si compiaceva di essere in piedi fra le rovine, atteggiamento nobile ma sterile. Almirante era in piedi, ma per camminare e costruire.

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Gigi Montonato

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