Cinema/2. In morte del celiniano Tuco Ramirez detto “il Brutto” (al secolo Eli Wallach)

ramirezSi è spento il 24 giugno, a New York, alla veneranda età di 98 anni e sette mesi, Eli Wallach, uno degli ultimi grandi attori della Hollywood (e delle Cinecittà) che fu. In poche parole: Tuco Ramirez, il Brutto de “Il Buono, il Brutto e il Cattivo”.

Se ne va uno dei volti che tutti ricordano, avendolo visto almeno una volta, in quel film che tre o quattro generazioni hanno amato, così come hanno amato quel personaggio del bandito che, anche chi non ha mai sentito il nome Eli Wallach, tutti ricordano con affetto. Stretto fra Clint Eastwood e Lee Van Cliff, alla fine era però lui a troneggiare, col suo istrionismo, con quella faccia che sembrava disegnata a pennello per quella parte, relegando nel loro angolo i due “titani” e finendo per tenere piedi, quasi da solo, tutto il film.

Dice la storia che Sergio Leone avrebbe voluto ardentemente fare una trasposizione cinematografica del “Viaggio al termine della notte” e, non riuscendoci, avrebbe girato comunque un film assolutamente celiniano, quello che concludeva la “Trilogia del dollaro”. E autenticamente celiniana era quell’epopea anti-eroica sullo sfondo di una guerra vista con un totale disincanto, che però non degradava mai in ipocrita retorica pacifista, celiniani erano quei personaggi che, liberi come il vento, percorrevano la storia alla ricerca solo ed esclusivamente di quattrini, soli con il loro cinismo, incapaci, anche quando erano “soci”, di fidarsi l’uno dell’altro. E celiniano era, sopra a tutti, quel Tuco Ramirez, bandito, che passava dalla spietatezza alla codardia, dall’inganno alla rabbia per l’essere stato fregato, fino all’avidità che esplodeva nella scena della sua corsa fra le tombe alla ricerca del tesoro (che ad Eli Wallach costò quasi un infarto). Era il 1966 e il western di Sergio Leone affascinava la gioventù che si apprestava alla contestazione, con una storia lontana dalla retorica e dalle ideologie, e forse per questo espressione di una ricerca di libertà che nessun trattato di filosofia avrebbe potuto mai rendere.

Forse proprio in questo sta la forza che rese quell’epopea immortale, che ne ha fatto un mito anche per i giovani di quasi 50 anni dopo. Fateci caso: anche oggi, non c’è un teenager che, almeno una volta, sghignazzando, non abbia ripetuto quel finale “Figlio di puttaaaaah- ah –ah –ah!”.

Ed era solo una, la più riuscita, delle tante incarnazioni del bandito che Eli Wallach avrebbe interpretato per decenni, da “I magnifici sette” a “I quattro dell’Ave Maria”, oltre ad un’infinità di canaglie in ambiente non western. Ritirando l’Oscar alla carriera, nel 2011, aveva detto, con un sorriso sulle labbra: “Come attore ho interpretato più banditi, ladri, killer, signori della guerra, molestatori e mafiosi di quanti voi ne possiate immaginare.”.

Ma forse, la sua citazione migliore è un’altra, la risposta che diede, nel 1997, a chi gli chiedeva perché recitasse ancora: “Che altro devo fare? Io amo recitare”.

Riposa in pace, Tuco.

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Paolo Filipazzi

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