Abbate, oltre che scrittore ha un ruolo di cronista culturale, un antropologo capace di non inciampare nel nostro confuso presente, con il suo diario in video “Teledurruti” la tv monolocale su Youtube, ed ha come missione il non assimilarsi. Un esercizio quotidiano che lo porta ad usare la nostalgia con leggerezza, passando tra le vite senza appesantirle con i sentimenti dell’inutile.
“Intanto anche dicembre è passato” è un romanzo sulla perdita, un lungo verbale di salvataggio ad opera di un bimbo di quasi dieci anni, trasformando Palermo e casa sua in una sorta di Triangolo delle Bermuda al rovescio, dove si ritrova quello che il mondo ha perduto, dove riappare chi ha sbagliato e chi ancora non sa di averlo fatto, per rovinarsi definitivamente in Sicilia. C’è l’infanzia dello scrittore, la sua formazione fantastica da “Quattroruote” (fissazione paterna) ai grandi artisti francesi sparsi in una Parigi che sembra un parco giochi della sua immaginazione. C’è il suo stupore bambino passato al lettore, elargito con normalità, e con un ritmo veloce mai compiaciuto. C’è il sogno di Trotskij e quello di un prete, svuotati negli istinti della carne e del cinematografo. C’è tutta l’assurdità degli eventi irreversibili, e la malinconia che ne consegue. E c’è il ribaltamento del tempo, che solo alla scrittura riesce. E Fulvio Abbate c’è riuscito. Ha scritto in una sola storia quella di tutti, unendo posti lontani, immagini bruciate e trascinando nella stessa geografia: biografie distanti. Non tradendo mai il suo desiderio: «da grande voglio fare il bambino». [da Il Mattino]