“Lontani” i tempi in cui – in realtà era il 2012 – Renzi si recava alla Convention democratica proprio per andare a seguire la campagna elettorale di Obama. Andava lì ad imparare stile e linguaggio dell’inquilino della Casa Bianca e – dicevano i maligni – a cercare un’investitura negli States. Dopo poco più di un anno eccolo, da premier, ricevere Obama. Occasione troppo ghiotta per il premier, a due mesi dalle elezioni Europee e con una maggioranza incerta che continua a dargli problemi di partenza, per non sfruttare tutto l’effetto “vetrina”.
Ed ecco che su programmi sull’austerity («Abbiamo sì un grande debito pubblico ma un risparmio privato quattro volte il debito e un avanzo primario. Non siamo la Cenerentola d’Europa, usciamo da una subalternità culturale»), sull’elenco dei buoni propositi del governo (l’elenco delle riforme “annunciate”), sulla politica estera “comune” con gli Usa sui fatti di Ucraina (che significa condanna per il referendum scissionista in Crimea) e, ciliegina sulla torta, su quel “Jobs Act” chiamato proprio come quello del presidente americano, Renzi ha fatto ciò che ormai sta diventando il suo brand: sedurre l’interlocutore.
Davanti a questo Obama non ha potuto fare che ribadire le stesse dichiarazioni di Angela Merkel dopo l’incontro con il giovane dirimpettaio italiano: «Favorevolmente impressionato dell’energia» di Renzi. Anche perché agli Stati Uniti Renzi non ha chiesto praticamente nulla. Tant’è che Obama ha dichiarato che «gli Usa vi sosterranno nelle decisioni che dovrete prendere» in materia di riforme. Anzi a dire il vero il premier italiano una cosa l’ha chiesta al presidente degli States: proprio sul capitolo marò. Qui Renzi ha ringraziato Obama per gli sforzi ma ha chiesto ulteriore sostegno «affinché la questione sia affrontata sul contesto internazionale». Il “Yes we can” varrà anche per i nostri soldati?