Il ricordo. Dino Mangani operaio generoso del movimento anticonformista

Dino Mangani, cerchiato di rosso, con i suoi fratelli
Dino Mangani, cerchiato di rosso, con i suoi fratelli

Forse anche questa la scattai io. Non me lo ricordo. Ma mi ricordo bene, molto bene, quando partimmo in treno per Montesarchio. Un viaggio avventuroso come andassimo sulle Ande. Tutto il gruppo di Latina del Circolo Culturale Satrico. Sì, gli “irregolari” di Latina. Andavamo a fare i manovali nel campo sportivo di Montesarchio, dove ci aspettava Generoso Simeone.

Dovevamo costruire il I°Campo Hobbit, insieme ai mai dimenticati ragazzi di Benevento. Irregolari già allora, primi di giugno 1977. Fuori dagli schemi, curiosi, vivi, sempre di corsa, scanzonati, con la capacità di divertirci sempre anche in una stagione di grandi dolori, rischi, giovani morti ammazzati in una pseudo-guerra, dove solo il regime ci guadagnava.

Dino è lì, al centro di questa foto, dove ci sono altri volti che conosco bene, di ogni parte d’Italia. Mi piaceva, all’epoca, definirmi negli estenuanti dibattiti, “operaio del movimento”, in una contrapposizione goliardica alla “crema del movimento”, i vari Tarchi, Umberto Croppi, Peppe Nanni, Monica Centanni, eccetera. Questi ultimi sono molto conosciuti, ma senza gli altri, gli “operai del movimento”, non sarebbero, alcuni di loro, arrivati alla notorietà, addirittura alla fortuna economica. Bene.

Dino apparteneva alla prima categoria. Nottate passate insieme ad incollare ogni cosa sui muri, a scrivere della nostra voglia di esserci, a cosa poter fare per emergere. Di giorno la lotta, di notte, a notte fonda, di nascosto “gli incontri con gli altri”. Noi, Dino, io e qualcun altro, nel pieno di quella specie di guerra civile degli anni ’70, porgemmo la nostra mano agli “altri” in tempi non sospetti. Non una trattativa, anzi, ma cercavamo di far capire agli “altri” che eravamo giovani come loro, con sogni e pulsioni simili, con orizzonti semmai diversi, letture diverse, ma con spirito e curiosità per una vita in formazione. Assurdo doverci sparare contro. I nemici erano altrove. Tra gli “altri” tanti compresero, molti “altri” assolutamente no.

E pensare che Dino è passato per un duro. Lui, l’uomo a cui dovevo legare una corda alla caviglia, portarla fuori della sua finestra di casa, per poterlo svegliare con uno strattone! Lui, ai limiti del tontolone, io lo posso dire. Mi è permesso dalla fratellanza di sangue, ora di dolore, che avevo con lui. Dino, come tanti di noi, non aveva paura delle sue ragioni, si confrontava, argomentava, studiava. Ora lo piangiamo, giusto così. Lo piangiamo come abbiamo pianto Nando Cappelletti, Gianfranco Alessandrini, tanti altri.
Domani la mia comunità si stringerà intorno a lui, con lo sguardo fiero e la schiena dritta e lo saluterà degnamente. Ave, Dino, come ti piaceva salutare. In alto i cuori

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Ferdinando Parisella

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