Caso Gallinari. Pugni chiusi e rivoluzione sconfitta analizzati da differenti angolazioni

Il funerale di Prospero Gallinari, terrorista delle Brigate Rosse, ha scatenato un vasto dibattito sui media. Ecco una rassegna di articoli sull’argomento.

Giovanni Bianconi sul Corsera ne ha tracciato la biografia: “Per molti anni è stato considerato l’assassino materiale di Aldo Moro. Non solo il carceriere, ma il killer che fece fuoco sul presidente della Democrazia cristiana, all’alba ore del 9 maggio 1978. Non era vero, a sparare fu un altro brigatista, ma Prospero Gallinari non disse nulla per tutto il tempo in cui ebbe addosso quell’etichetta. Perché non gli piaceva parlare delle responsabilità dei singoli «compagni» nelle singole azioni, né con i magistrati (davanti ai quali s’è sempre rifiutato di rispondere), né con i giornalisti o con gli storici; neanche nei suoi libri s’è soffermato su quelli che considerava particolari poco rilevanti. Perché il fatto di non aver premuto il grilletto sul corpo dell’ostaggio non lo liberava dalla responsabilità di quella morte, di quel sequestro, dell’azione terroristica che ha cambiato il corso della politica e della storia dell’Italia repubblicana. Prospero Gallinari è uno dei brigatisti rossi che ha partecipato a quell’operazione, come a tante altre firmate dall’organizzazione a a cui ha sempre rivendicato la propria appartenenza. Sia prima, quando si proclamava un combattente, sia dopo, quando dichiarò chiusa quell’esperienza e si considerò uno sconfitto. Scelse di fare politica impugnando le armi, sparando, ferendo e uccidendo vittime inermi. Lui che veniva da Reggio Emilia rappresentava componente «contadina» delle Br, che più di altre evocava i presunti legami con la lotta partigiana, diversa da quella «operaia» dei milanesi e dei torinesi, o «terziaria» dei romani”.

Pierluigi Battista scrive un commento titolato “Un’offesa alla memoria delle vittime” sul Corriere della Sera:

“Chi ha fatto dei funerali di Prospero Gallinari una patetica e irritante adunata di nostalgici incanutiti non ha reso un buon servizio né alla causa cui si voleva rendere omaggio, né all’amico (e compagno) che si voleva accompagnare nell’addio a questa terra. Non si sa se l’Internazionale e l’ostentazione dei pugni chiusi abbiano commosso le pattuglie dei reduci. Di certo l’apologia del brigatista irriducibile ha offeso la memoria di una tragedia che ha personalmente toccato tanti italiani e non ha contribuito a chiudere definitivamente una pagina orribile e cruenta della nostra storia.
Orribile e cruenta. Senza attenuanti e giustificazionismi. E senza nessuna possibilità di riscatto postumo per i carnefici che dichiararono unilateralmente guerra allo Stato e alle persone che lo servivano. Assassini politici che fecero stragi di innocenti: poliziotti, magistrati, sindacalisti, avvocati, giornalisti, cittadini comuni. Perciò appare quasi incredibile che esponenti di rilievo di Rifondazione comunista, oggi alleata della lista di Ingroia, abbiano voluto partecipare a una distorsione così grottesca di una cerimonia funebre. Ed è ancora più incredibile, che, con l’occhio umido per la scomparsa di un uomo definito testualmente «combattente per la rivoluzione», si sia voluto paragonare sul Manifesto il funerale di Gallinari a quello dei «morti di Reggio Emilia». Come se non ci fosse nessuna differenza tra chi rimase ucciso nei terribili scontri di piazza del ’60, con tanti giovani che manifestavano contro il fascismo, e chi ha trascorso alcuni anni della propria vita ad abbracciare la strada della clandestinità, pedinare le sue vittime, ad ammazzarle a sangue freddo nel nome di un’ideologia rivoluzionaria e con un fanatismo glaciale il cui ricordo ancora non cessa di stupire.
Non è in discussione l’affetto che gli amici e i sodali di Gallinari hanno voluto manifestare accanto alla bara di chi è appena scomparso. Il cordoglio è un sentimento inviolabile, e che va rispettato sempre. Non si rispetta invece la manipolazione fintamente sentimentale di chi nobilita la propria identità e l’identità di chi si è arruolato nel terrorismo italiano, cancellando come se non esistesse il ricordo delle vittime innocenti del delirio ideologico di allora”.

Lidia Ravera su Il Fatto quotidiano (“Gallinari e il saluto estremo, non estremista”) ha commentato così il funerale:

“Prospero Gallinari era un esempio tipico di quella categoria che veniva definita “i compagni che sbagliano”. E’ morto dopo aver pagato per i suoi crimini. Senza chiedere sconti, Senza abiurare per comodo o cambiare idea per convenienza.  (…) C’era qualcosa di rosso, ci sono stati dei pugni chiusi e qualche canto rivoluzionario. Dov’è lo scandalo? (…) Il pugno chiuso al funerale di Gallinari, caro Pigi Battista, non è adunata di nostalgici, o cancellazione del “ricordo delle vittime innocenti”, è estremo saluto. Estremo, non estremista”.

Adriano Scianca analizza l’avvenimento e lo contestualizza svelando alcune doppiezze culturali:

“C’è un grumo indissolubile di infinite ipocrisie che ostruisce la via alla corretta comprensione di ciò che è accaduto in occasione dei funerali dell’ex brigatista Prospero Gallinari. La prima ipocrisia riguarda il voyeurismo indecente che vuole fare di ogni funerale l’occasione per sbirciare, documentare, giudicare l’elaborazione del lutto altrui. L’asticella del politicamente corretto, del conformismo, del controllo orwelliano viene spinta un po’ più su: non solo le nuove autorità morali pretendono di dirci come è lecito morire ma ora vorrebbero inseguirci anche dopo la morte, controllare il dolore, autorizzare o meno il ricordo. Gallinari era un comunista combattente, che aveva fatto una scelta ben precisa, con tragica coerenza: come si pretende che avrebbero dovuto salutarlo i suoi compagni? La seconda ipocrisia riguarda la precisa strategia ideologica che è sottesa allo scandalismo sui pugni chiusi e le bandiere rosse. Indignarsi, meravigliarsi, cadere dalle nuvole per il fatto che mille persone hanno voluto salutare un brigatista con ritualità comuniste significa fare dei comunisti stessi dei marziani, persone sbucate da chissà dove, senza padri, senza madri, senza un perché. Grazie a questa finzione si esonera la coscienza dalle responsabilità e il cervello dalla riflessione. Al di là di questo stupore colpevole, invece, bisognerebbe una volta tanto indagare la continuità tra brigatismo e “società civile” di ieri e di oggi. Il partito armato non proviene da un misterioso Altrove ontologico ma nasce e cresce in mezzo a mille complicità, che potremmo sintetizzare in tre filoni: contiguità con gli ambienti antifascisti (vedi la consegna – simbolica ma non solo – degli arsenali partigiani proprio alle Br emiliane), contiguità con gli ambienti giornalistici, contiguità con gli ambienti politici. La narrazione intimistica, generazionale, buonista e narcisistica degli anni ’70 espunge spesso e volentieri questo aspetto, che invece è centrale per comprendere ciò che è davvero accaduto in questo Paese. Esiste un album di famiglia di un pezzo importante di questa nazione che va sfogliato per intero, senza confondere ruoli, scelte e responsabilità, ma anche senza staccare le foto che non ci piacciono. La terza ipocrisia è dettata infine dallo strabismo di chi a quel funerale c’era o avrebbe voluto esserci, di chi, a sinistra, ha fatto magari altre scelte ma riconosce correttamente in Gallinari un pezzo della sua storia e gli rende quindi omaggio, persino di chi oggi si ritiene erede fattuale e materiale di quella lotta (ce ne sono più di quanto non si immagini) – e poi, come d’incanto, si trasforma in una comare di campagna bigotta quando assiste a qualcosa di simile sul fronte opposto. In fondo è solo un altro modo per azzerare la storia reale d’Italia e continuare a propinarci la storiella del Belpaese dove la melodia del mandolino è stata malauguratamente interrotta da una sparuta minoranza di alieni violenti che si sono sparati fra loro per una ventina d’anni e poi sono ripartiti per il loro pianeta. Ma non è così che è andata. La comprensione reale del nostro passato (e quindi del nostro presente) non potrebbe essere più lontana”.

Adriano Scianca et al.

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