Il ritratto. Gipo Farassino ironico cantastorie piemontese amico di Bossi e De Andrè

Per tante generazioni di piemontesi è stato il Georges Brassens della porta accanto. E di certo oggi saranno in molti a rendere l’ultimo omaggio a Gipo Farassino, che mercoledì mattina ha chiuso gli occhi per l’ultima volta al cielo di Torino e alle montagne del suo Piemonte, quelle a cui chiedeva di portare in Paradiso “i sogni dei bogianèn”. A salutarlo ci sarà anche l’amico Giampiero Boniperti insieme a Morini e Furino, campioni della Juve di cui il cantore di Torino era grande tifoso.

Gipo era nato 79 anni fa in una casa “al 6 di via Cuneo” a cui avrebbe dedicato una delle sue ballate più commoventi. Veniva dal rione popolare di Porta Palazzo, che allora era per tutti “Porta Pila”, e come “Giuanin ‘d Porta Pila” avrebbe calcato i primi palchi all’inizio degli anni Sessanta: in mezzo secolo di carriera firmerà trenta album e decine di spettacoli, recital e produzioni televisive, affermandosi tra i migliori interpreti della canzone d’autore dialettale.

I suoi versi raccontano l’ironia bonaria del piemontese abituato a non prendersi troppo sul serio, la malinconia per gli anni e i luoghi perduti, ma anche l’orgoglio terragno di chi le sue radici le amava davvero e non accettava di vederle vilipese da nessuno, che si trattasse dei nuovi venuti o di compaesani troppo ansiosi di affrancarsi dalle proprie origini.

Sarà questo orgoglio ad ispirarne l’impegno politico, nelle file dell’autonomismo e della Lega Nord dei primordi all’interno della quale, tra alti e bassi, è stato per lungo tempo il punto di riferimento dei militanti piemontesi. A quell’epoca risale il ricordo affettuoso che ha lasciato di lui Fabrizio De André, rievocando la volta in cui Gipo, “proprio quello della Lega”, lo raccolse dopo un concerto “ubriaco come un tino di mosto” e gli diede ospitalità a casa: “A me della Lega me ne importa più o meno quanto di Ronald Reagan, ma il Gipo non me lo posso certo dimenticare”.

Il destino ha voluto che Gipo sopravvivesse alla Lega verace e popolare per cui si era battuto, com’era sopravvissuto alla sua Torino e come sarebbe stato chiamato a sopravvivere a prove più terribili, su tutte la morte in un incidente stradale di una delle due figlie, Caterina, giovane fotografa rock di talento.

Della Torino che “Giuanin ‘d Porta Pila” ha cantato per mezzo secolo, in brani come “La mia città”, è rimasto ormai ben poco oltre a “quel cielo che non ti scalda mai”: non ci sono più le “fredde ciminiere” e i “soldatini blu” della città industriale, né le balere e le piole (le osterie) di una vecchia capitale in disarmo che proprio negli anni in cui Gipo iniziava ad affermarsi come chansonnier veniva trasformata fin nelle radici dall’onda lunga dell’emigrazione, quella dei “treni del Sole” dal Mezzogiorno e più tardi degli autobus dalla Romania e dal Marocco. Nelle case di ringhiera delle “barriere”, come tra i banchi di Porta Palazzo e del Balon, il piemontese è una lingua straniera.  Ma ancor più straniera alla nuova “capitale olimpica” è la mentalità del bogianèn di una volta, che sarebbe difficile immaginare a spasso tra grattacieli finanziari, stadi avvenieristici (ma costosissimi) e santuari gastronomici per palati raffinati e portafogli capienti.

Le strade e le piazze, però, sono ancora quelle. E si potrà ancora camminare per il suk di Porta Palazzo ricordando “Porta Pila”, o scendere in riva al Sangone con in testa il ritmo di “Sangon Blues”. Un lascito dell’ultimo bogianèn che non scomparirà, perché come diceva lui “questa mia città, che spegne le risate, che sfugge a tanta gente, resta la mia città”.

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Andrea Cascioli

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