Pian piano, però, la storia di Alfano ha iniziato a fare breccia. Lo stesso Carlo Lucarelli ha raccontato con passione ed emozione le sorti di quest’uomo, definendolo «un giornalista e un politico tutto d’un pezzo, un uomo di destra, quella di Paolo Borsellino, per esempio, che ha idee precise sull’ordine, sulla legge e sullo stato, e su quelle non scende a compromessi». Ed è emersa, con questo, un’antimafia del tutto inedita dallo show che, in questi ultimi vent’anni, ha contraddistinto i cosiddetti “professionisti”. Quelli per i quali la lotta alla mafia si è rilevata per lo più recita a soggetto, passepartout per carriere politiche o giornalistiche. Non a caso quella di Alfano è stata e resta ancora figlia di quella tradizione marziale, silenziosa e impersonale che lega indissolubilmente il giornalista di Barcellona Pozzo di Gotto con Paolo Borsellino, il giudice che ha ingaggiato assieme a Giovanni Falcone la battaglia delle battaglie contro Cosa Nostra. Tradizione che si collega poi alle tesi della relazione di un “vero” moralista come Beppe Niccolai per la Commissione nazionale antimafia, testo che lo stesso Leonardo Sciascia definì materiale prezioso e interessante per comprendere il fenomeno della criminalità organizzata. Tradizione incarnata da uomini di altri tempi, rispetto ai quali non ci si doveva nemmeno porre il problema di “trattare” in alcun modo con la mafia. Fino alle estreme conseguenze. Come dimostra quella notte di vent’anni fa.