Beppe Alfano. Il giornalista fascista che lottava contro la mafia, “senza trattative”

Beppe Alfano, vent’anni fa, veniva ucciso in quella che, come lui stesso già sapeva, sarebbe stata l’ennesima esecuzione mafiosa. Questa volta la propria esecuzione. Le avvisaglie, certo, c’erano state. Troppo scomodo, “rompiballe”, quel cronista di provincia che non smetteva di denunciare gli intrecci tutt’altro che locali tra potere politico, mafia e massoneria. Personaggio a suo modo Beppe Alfano, militante politico (era stato sostenitore da giovanissimo di Ordine Nuovo per poi aderire al Msi), insegnante di scuola ma soprattutto giornalista di quelli che la “passionaccia” porta inevitabilmente distanti dal quieto vivere. Tutta una serie di caratteristiche che non potevano non definire i contorni di un personaggio particolare, troppo indipendente per i suoi stessi sodali di “militia”. Per questo motivo, rispetto a tante vicende che hanno rappresentato l’annosa lotta tra Stato, anti-Stato e zona grigia, quella di Alfano resta una storia diversa dalle altre. Certo, la Sicilia è la stessa delle stragi di mafia. Ma, vuoi per il pedigree politico, vuoi per la cittadina del messinese fuori dai grandi circuiti della mafia “spettacolo”, per tanti anni la scomparsa del collaboratore de La Sicilia è rimasta materia portata avanti esclusivamente dalla famiglia (con la figlia Sonia, adesso politico, in prima linea) e dalla schiera di amici e militanti della destra siciliana.
Pian piano, però, la storia di Alfano ha iniziato a fare breccia. Lo stesso Carlo Lucarelli ha raccontato con passione ed emozione le sorti di quest’uomo, definendolo «un giornalista e un politico tutto d’un pezzo, un uomo di destra, quella di Paolo Borsellino, per esempio, che ha idee precise sull’ordine, sulla legge e sullo stato, e su quelle non scende a compromessi». Ed è emersa, con questo, un’antimafia del tutto inedita dallo show che, in questi ultimi vent’anni, ha contraddistinto i cosiddetti “professionisti”. Quelli per i quali la lotta alla mafia si è rilevata per lo più recita a soggetto, passepartout per carriere politiche o giornalistiche. Non a caso quella di Alfano è stata e resta ancora figlia di quella tradizione marziale, silenziosa e impersonale che lega indissolubilmente il giornalista di Barcellona Pozzo di Gotto con Paolo Borsellino, il giudice che ha ingaggiato assieme a Giovanni Falcone la battaglia delle battaglie contro Cosa Nostra. Tradizione che si collega poi alle tesi della relazione di un “vero” moralista come Beppe Niccolai per la Commissione nazionale antimafia, testo che lo stesso Leonardo Sciascia definì materiale prezioso e interessante per comprendere il fenomeno della criminalità organizzata. Tradizione incarnata da uomini di altri tempi, rispetto ai quali non ci si doveva nemmeno porre il problema di “trattare” in alcun modo con la mafia. Fino alle estreme conseguenze. Come dimostra quella notte di vent’anni fa.

Antonio Rapisarda

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