L’intervista (di M.Cabona). Pasolini Zanelli: “Italia tra Papa rally fantasia e declino”

Bracciali tricolore
Il declino italiano coincide col passaggio dei Paesi europei minori dall’influenza diretta degli Stati Uniti all’influenza diretta della Germania. Il sub-imperialismo
si rivela più nefasto dell’imperialismo, perché la Germania, vicina e risentita, è decisa a ottenere dalla sua unica vittoria nelle tre guerre mondiali (la prima, la seconda, la Guerra fredda) quanto le è sfuggito in precedenza. Perciò la diplomazia italiana, memore delle parole di Giulio Andreotti un quarto di secolo fa (“Amo tanto la Germania che preferisco averne due”), adotta il metodo del “mi piego, ma non mi spezzo”, in senso letterale, perché l’unità della patria c’è ancora, a differenza di quella cecoslovacca e di quella jugoslava. Per ora il cambio di egemonia continentale è quasi solo economico e inoltre l’Italia non potrà essere spremuta oltre certi limiti senza che la Germania stessa ne sia danneggiata. Resta una constatazione, imposta da episodi come il ventennale protrarsi del caso Priebke: la vanità del sacrificio degli italiani caduti tra 1943 e 1945.

Maurizio Cabona giornalista scrittore, autore del ciclo di interviste per Barbadillo sul declino italiano

Intanto la quinta potenza industriale dell’epoca di Craxi è ora la nona; e la discesa continuerà. Appare così che l’alleanza più proficua per l’Italia è stata quella con gli Stati Uniti. Il miglior senior partner, la “potenza protettrice” meno letale, è la più lontana e la più ricca. Ora però la distanza dagli Stati Uniti permane, non la loro ricchezza. Nel novembre 1989 mi chiedevo se, dopo la fine dell’Impero sovietico, avrei visto quella dell’Impero capitalista. Forse la vedo ora. Ma i sogni, se si realizzano, si rivelano incubi. Fin dalla disgregazione della Jugoslavia proprio per mano germanica, avevo constatato che la Francia non si sarebbe appoggiata all’Italia per frenare la germanizzazione dell’Europa quel tanto da render Roma ago della bilancia, come nell’autunno 1914, come nell’autunno 1938.

Sperando che l’arma nucleare facesse ancora la differenza, disperando che a Roma ci fosse un vero governo di una vera nazione, Parigi s’è aggrappata a Berlino, in attesa che Mosca ritrovasse un rango mondiale (la tenacia in Siria è un primo segno) e che Londra rammentasse d’essere la capitale di un’isola dell’Europa. Invece no. A scusante della Francia, delle sue velleità libiche e maliane, per non dire di quelle siriane, c’è l’impossibilità di prendere sul serio tanto l’Italia di Scalfaro/Prodi, quanto l’Italia di Berlusconi/Bossi, determinante una sola volta: non isolando Washington quando – era il 2003 – stava per invadere l’Irak, protettorato francese.

Alberto Pasolini Zanelli

Di declino americano e declino italiano parlo con Alberto Pasolini Zanelli, che da trent’anni osserva il mondo da Washington. Amico del presidente Ronald Reagan da un lato, amico mio dall’altro, Pasolini Zanelli ha rappresentato un solo grado di mia separazione dal potere vero. Non è stato più così sotto George Bush, cui pure strinsi la mano a Milano (ma ormai governava Clinton); meno ancora sotto George W. Bush. Così Pasolini Zanelli ha sperato che l’Obama presidente somigliasse all’Obama senatore, l’unico contrario alla seconda aggressione all’Irak. Già biografo del sudista generale Robert E. Lee (Dalla parte di Lee, Edizioni Leonardo Facco, 2006), Pasolini Zanelli ha affidato il suo wishful thinking all’omerico L’ora di Telemaco (pref. di Sergio Romano, Edizioni Settecolori, 2010). Era l’alternativa al delirio neocon.

Caro Alberto, Stati d’Italia e Stati Uniti d’America hanno simultanee guerre civili a metà ‘800. I vincitori in America la chiamano liberazione degli schiavi, quand’è imposizione del capitalismo industriale al Sud agricolo; in Italia invece si parla di Risorgimento…

“… Troppi risorgimenti abbiamo avuto: il primo tra la caduta dell’Impero Romano d’Occidente e il Rinascimento, circa dieci secoli. Quattro secoli è durato il secondo, fra Rinascimento e Risorgimento comunemente detto. Un secolo e mezzo è durato il terzo, fra unità nazionale e boom economico. Se la contrazione continua, ne avremo presto un altro. E ce n’è bisogno…”.

… Visto che siamo in declino.

“Ma risorgere è buon segno? Siamo più bravi perché risorgiamo più in fretta o siamo semplicemente più inguaiati, se occorre sempre un nuovo miracolo? Più pillole occorrono, prima i cardiopatici muoiono”.

Ora risponda al mio paragone con gli Stati Uniti.

“Salvo la Germania, l’Italia è l’unico grande Paese dell’Europa centrale ‘più giovane’ degli Stati Uniti. Ha una civiltà antica, ma una storia statuale più breve che quella di gran parte dell’America Latina. Washington è stata capitale quasi un secolo prima di Roma. La Casa Bianca è un monumento restaurato dopo che, nel 1812, gli inglesi bruciarono l’originale. Una diversa valutazione del tempo spiegherebbe certe differenze tra i due Paesi”.

Poi c’è il fatto che l’Italia non veniva e non viene presa sul serio.

“Esordii nel giornalismo come collaboratore (di grado basso, data l’età, e senza onor di firma) di Time. Tra le prime istruzioni della redazione romana ci fu: ‘Dell’Italia ci interessano Papa e Mille Miglia’”.

La Mille Miglia durò meno del Papa…

“… La proibirono per una strage di spettatori. Il Papa, in effetti, c’è ancora. Anzi adesso ce n’è uno che guida l’automobile e che, più della Mille Miglia, ricorderà le imprese del suo connazionale Juan Manuel Fangio”.

Vuol dirmi che la situazione italiana…

“… Anche allora interessava poco, salvo scandali, crisi politiche, finanziarie, economiche. La Mille Miglia è ora un rally. Fra le tante ‘riforme’ che scaturiscono dai palazzi romani, potrebbe, forse dovrebbe, esserci la rinascita della Mille Miglia com’era”.

Torniamo sulla questione del tempo storico.

“Per capire i rapporti di oggi, ieri e domani fra Italia e altri Paesi europei, si guardi alla data di nascita. Rispetto a Francia, Spagna, Russia, ai defunti imperi ottomano e austriaco, siamo un Paese giovane”.

Ma la Germania è…

“… Uneccezione che apparentemente dovrebbe cambiare tutto. Siamo quasi suoi coetanei. Non possiamo guardarla, né essere guardati dall’alto dei secoli. La nostra unità ha un secolo e mezzo, quella tedesca meno: il Reich fu proclamato nel 1870 nel salone degli specchi di Versailles, capitale provvisoria di un Paese vinto. Tempi simili, modi differenti, con premonizioni sugli sviluppi”.

Eravamo, siamo e forse saremo vaso di coccio rispetto al vaso di ferro Germania.

“I tedeschi sono stati sempre più ‘solidi’: quando si misero assieme, erano una grande potenza industriale, con materie prime. Noi eravamo fragili e indebitati: allora mancava un patto di stabilità, il che ci aiutò a nascere, a sopravvivere e perfino a pagare gran parte delle tasse necessarie per quei debiti”.

Dunque?

“Avemmo sempre bisogno di più fantasia, ci mancarono sempre le materie prime e la solidità. Entrammo nella seconda guerra mondiale con carri quasi disarmati: non c’era acciaio per corazzarli davvero. Si ripeteva in versione bellica una differenza avvertibile nelle situazioni quotidiane. A Bologna, dove sono cresciuto, da bambino sentii un falegname parlare della “colla Garavella tudasc”. Più forte, naturalmente”.

I tedeschi sono vicini e avari. Gli Stati Uniti erano già allora alleati perfetti, invece.

“L’unica volta in cui gli Stati Uniti parvero aver bisogno di noi fu al tempo della guerra civile, quando il Nord, più forte, non vinceva perché il Sud aveva migliori generali. Così a Washington si pensò d’arruolare Giuseppe Garibaldi. Lo si riteneva l’unico in grado di reggere il confronto con l’eroe confederato, Robert E. Lee”.

Poi l’affare non si fece, ma il Nord vinse egualmente.

“E Garibaldi si perdette una lunga serie di monumenti nelle piazze americane e l’Italia, forse, un ‘diritto’ da fonte battesimale”.

Solo dal 1943 gli Stati Uniti diventano alleato di riferimento dell’Italia.

“La mancanza di molte ‘basi’ forgiò la nostra politica estera, anche nei casi e nei momenti più felici. Già prima di nascere, l’Italia non poteva ricorrere da sola alle armi: doveva puntare su un alleato più forte. Era un rischio in qualche caso necessario e perfino coronato dal successo, almeno agli inizi”.

In Crimea.

“Cavour decise di fare entrare il Regno di Sardegna (eravamo ancor prima dell’Unità) in una guerra in terre lontane, a fianco di Gran Bretagna e Francia, dalle quali ci aspettavamo, specie dal secondo, un appoggio decisivo nella crociata per l’indipendenza. Partecipando a quella guerra, Torino non ne decise l’esito, ma acquisì meriti importanti, come la partecipazione alla conferenza di pace”.

Poi venne il Regno d’Italia che…

“… Aiutò la Prussia contro l’Austria, tenendo impegnate, secondo il desiderio di Bismarck, alcune divisioni austro-ungariche: e così ottenne Venezia. Quattro anni dopo, la breccia di Porta Pia fu in realtà aperta dai cannoni prussiani a Sédan”.

Nascita di una potenza continentale.

“Sì, l’Italia neonata toccò allora il vertice dell’autorevolezza internazionale. Quando a Parigi crollò l’Impero neo-napoleonico, il governo provvisorio convocò gli ambasciatori delle grandi potenze: Gran Bretagna, Austria, Italia e Stati Uniti. Continuammo così anche nel nuovo secolo, ma non sempre con gli stessi risultati”.

Non si può sempre vincere guerre perdendo battaglie.

“Il conto finale lo pagammo con la seconda guerra mondiale. Anche dopo, però, approfittammo della Guerra fredda, un’occasione per uscire subito dall’isolamento degli sconfitti ed entrare in uno dei due blocchi contrapposti, quello destinato alla vittoria”.

Ci riuscì di perdere la guerra ma di vincere la pace. La Gran Bretagna fece l’opposto. La Francia perse entrambe.

“La geografia fu determinante: l’Italia fu dichiarata ‘portaerei naturale del Mediterraneo’ e i nostri alleati, americani in testa, ce ne furono grati. Grati come si può esserlo in politica internazionale”.

Abbiamo omesso la prima guerra mondiale.

“Col suo centenario ci saranno tante occasioni per ricordarla. C’è però un altro anniversario significativo: i 75 anni dall’incontro di Monaco, che doveva prevenire e in parte invece preparò la seconda guerra mondiale”.

Dunque…

“Tre quarti di secolo, l’ultima occasione in cui i destini d’Europa parvero decisi da europei: a Monaco c’erano Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia. Dopo i vertici diventarono cosa degli americani. È singolare che sia stata una crisi finanziaria nata negli Usa a dar occasione agli europei per nuovi vertici fra di loro. L’Europa era appena nata e già si disfaceva in nome dell’euro, dell’austerity, della ‘stabilità’”.

@barbadilloit

Maurizio Cabona

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