Libri. L’ultimo di Gianrico Carofiglio i fascisti e “il bordo vertiginoso” dell’ideologismo

il borgo vertiginoso carofiglioPossiamo scrivere che l’ultimo romanzo di Gianrico Carofiglio non ci è piaciuto? Il bordo vertiginoso delle cose’ (Rizzoli, p. 315, 14 euro) è  un’opera  che racconta la storia di Enrico in due momenti della sua vita: da giovane liceale barese alla scoperta del modo politico degli anni settanta e da scrittore in crisi che ritorna a Bari per mettere ordine al suo passato e per riscoprire le vicende del suo amico, cioè Salvatore,  un ragazzo impegnato politicamente a sinistra e destinato alla tragedia del terrorismo rosso.

I sussulti della formazione politico-culturale, il recupero proustiano delle esperienze, poi il racconto di una contemporaneità priva di  radicamenti ideali – il tutto narrato su due piani temporali diversi – risultano i temi dell’opera di Carofiglio.

E al centro della storia appare il rapporto tra Enrico e la professoressa di filosofia, Celeste. Il milieu barese degli anni settanta, con il liceo rosso ‘Flacco’, costituisce lo scenario in cui si muove Enrico, un adolescente sensibile ed innamorato. Tuttavia, questa canonica ansia d’amore giovanile, per la giovane professoressa,  coinvolge il lettore sino ad un certo punto.  Inoltre, le lezioni della professoressa di filosofia si articolano provocando un senso di monotonia; così gli insegnamenti, su Platone, sul significato della metafora, su questo e su quello, non conquistano.

Per altro, il romanzo ‘Il bordo vertiginoso delle cose’ si mostra spesso privo di una scrittura da attribuire ad un così noto romanziere. Il suo è un lavoro narrativo spesso descrittivo, con pochi scatti poetici e con una sintassi asciuttissima.

Con tutto il rispetto per le precedenti opere di Carofiglio, ma, in questo romanzo, il lettore è costretto a leggere molte pagine prima di percepire un po’ di tensione. Lo scrittore barese ha sempre istruito buoni meccanismi letterari per coinvolgere. Al contrario, ne ‘Il bordo vertiginoso delle cose’, la sua macchina narrativa non corre e attraversa una città disegnata con dei colori sbiaditi.

Di più. Dispiace sottolineare che il personaggio principale, Enrico, un uomo alla ricerca del passato e di una nuova identità artistica, offre pensieri spesso usuali alla sua ansia quotidiana, del tipo “Non c’è nulla come l’alcol per sciogliere l’angoscia.”

Di sicuro, e per buona educazione letteraria, la fine della vicenda narrata si manifesta in maniera un po’ scontata. Un incontro malinconico, tra Enrico e la professoressa Celeste, lascia aperta la conclusione della storia, con un  senso di insoddisfazione per lo sviluppo finale incompiuto.

Cambiamo adesso di prospettiva critica. Scusate, ma, nel mondo barese anni settanta dello scrittore Carofiglio, i giovani fascisti sembrano tutti delinquenti?! Quei giovani neri così raccontati sono  tipi da galera e hanno le facce cattivissime. Invece, nel romanzo,  i comunisti appaiono più puri; più anime tormentate ma attraenti; più anime da romanzo; quindi i giovani di sinistra, come Salvatore, hanno le barbe belle, il fisico atletico, e fanno pure l’amore con le prof (!).

Leggendo il romanzo, sembra che il  personaggio di Salvatore sia  narrato con una ragguardevole comprensione umana; egli è un liceale di gran fascino che in seguito diviene, tanto fatalmente, un terrorista rosso. Diversamente i fasci sono diavoli con “le facce butterate”; questi sì hanno i coltelli e picchiano i ragazzini; questi sì sono mostrati come  “stronzi” e questi sì sono “figli di puttana”.

Eppoi colpisce quella frase in cui  si dice dei fasci “a cui schiacciare la testa.” Un romanzo è sempre una raccolta di fantasie in cui si può trovar di tutto. Ad esempio, e sempre per fantasia, nel romanzo potrebbe pure essere inserita una triste frase – di moda tra i comunisti del liceo ‘Flacco’ di quel tempo- cioè, “Uccidere un fascista non è reato!”

Insomma. Si ha come una strana percezione, questa: l’ultima rievocazione storico-letteraria del narratore barese evoca davvero il tempo buio della società italiana degli anni settanta?

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In riferimento ad un altro romanzo dello scrittore/magistrato, ‘Ragionevoli dubbi’, Marcello Veneziani gli mandò a dire tante cose. Gli scrisse che i fasci non potevano essere raccontati solo come dei picchiatori (Gazzetta del Mezzogiorno 6 Aprile 2006). E Veneziani spiegò, da barese all’altro barese, che, in quegli anni, c’erano “tanti ragazzi puliti che sognavano la patria e la rivoluzione, osavano sventolare il tricolore e, per sentirsi una comunità fiera e antagonista, usavano il saluto romano e la mitologia fascista.” E le parole di Veneziani rispondevano alla  scarsezza storica di una frase del magistrato/scrittore, “I fascisti erano organizzati in modo professionale. Come dei delinquenti professionali”, cioè a Bari.

Anche questa volta, purtroppo, la ricostruzione storico-letteraria del ex- magistrato non penetra gli scenari cittadini di quel tempo e gli episodi di violenza raccontati nel romanzo sono inseriti in una narrazione che non tenta di  sfiorare il senso della complessità storica o il senso di un dramma italiano.

Ora, in questi mesi di confronti sul nuovo romanzo storico italiano, la riscoperta del passato meriterebbe altre scritture, meriterebbe altri romanzi da dedicare ai fascisti, ai comunisti, alle ‘scuole rosse’, e alle memorie degli anni settanta bagnate anche dal  sangue nero.

Renato de Robertis

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