L’uomo ha cioè bisogno di interrogare le cose che lo circondano per sapere come regolarsi, quale atteggiamento prendere nella battaglia della vita, che quotidianamente e incessantemente pone problemi e, tra tutti, il problema fondamentale, che è quello di comprendersi, di incontrare sé stesso. E da qui sorge il bisogno della compagnia, degli amici, dell’amore, del fare poesia e del confrontarsi con gli altri, magari in una comunità di poeti! Se “le foglie e i gatti, / il vento e il cuore / entrano come predoni / nell’atrio imbambolato” potrà capitare che i poeti si confondano con il cielo, “anzi siamo cielo / aria / ombre / nel patio addormentato.” Condividendo un bicchiere di buon vino rosso potrà succedere che cadano i muri fatti di infingimenti e segreti. Ma anche coi poeti-amici che non ci sono più c’è un legame che non cessa con la morte , come Giancane suggerisce nel suo struggente Blues nostalgico o nella lirica L’amico poeta defunto mi rimprovera dal sogno con la sua sottile eco oraziana. Contro la disumanizzazione dell’arte e dei linguaggi (oggi quasi sempre asserviti al potere economico), Giancane rimette al centro l’elemento umano, smaschera i falsi miti come quello del progresso: “Sì, lo chiamano progresso / produrre all’infinito / automobili e cacciabombardieri, // aumentare il benessere senza fine / e l’immondizia nei cassonetti”; o come quello del successo: “se vuoi gli onori del mondo / la sfolgorante carriera, il denaro a fiotti / il timore dei subalterni, il reverente prestigio / … E’ facile la ricetta… / devi rinunciare al sé che ti pungola da dentro / e vuole emergere dal fondo, / reprimerlo nei recessi più nascosti , indossare la maschera che altri vogliono, / divenire cera molle, a piacimento plasmabile”. Ed ecco l’eros con la sua magia, la sua forza irrefrenabile, la sua inverecondia e la sua tenerezza: lei, che si spoglia e con il suo sguardo seducente illumina “il nero del cielo”, “è nuda come il mare! E’ tenue come l’alba!” E qui il poeta nota con benevola ironia che dopo le loro urla di piacere “stanno, adesso, / esausti, / immobili e felici,/ e guardano il cielo stellato / dalla finestra / rimasta incautamente / spalancata.” E poi. In un felice sguardo tra storia e cronaca ci sono le città elettive, Belgrado “umile e furente”, Split “tra calli, /archi ad ogiva”, Scutari “ninfee a perdita d’occhio, / alberi / e alberi / inzuppati d’acqua”. Ed infine lo stupore, che ci dona un’inattesa fanciullezza ed è preludio d’una ragione vitale e storica: “Che sarebbe il mondo senza il mare?”, si domanda il poeta. Ed ancora: “sappiamo chi ha inventato il fuoco, / il ponte, la ruota, la barca / che lieve dondola sul mare?”, “Chi furono quei divini poeti / che dettero nome al mondo?” Ecco: se “tutto è perso, è perso / nelle brume della storia”, resta il canto del poeta a ricordare la grandezza e la fragilità dell’uomo. Dicevamo della semplicità della scrittura poetica di Giancane, della sua estrema comunicabilità (l’arte è comunicazione, diceva il grande Ezra Pound!). Ma va sottolineato che la semplicità non è immediatezza o assenza di elaborazione, è, al contrario, conquista interiore, affinamento, frutto maturo di un assiduo lavoro sulla parola e sul verso, che implica anche un’approfondita conoscenza letteraria. In questi versi Giancane non ricerca l’elevatezza formale, non disdegna ciò che è banale, ma va dritto al cuore delle cose e coinvolge il lettore. Come Céline, mette in principio l’emozione.
@barbadilloit