Quando venne pubblicato in Germania per la prima volta Comunità e società fu sostanzialmente ignorato. Ebbe scarsa influenza nel dibattito pubblico, trovando lettori interessati solo nei circoli intellettuali. Il successo arrivò dal 1912 in poi (raggiungendo le otto edizioni in poco più di vent’anni). Nella sottovalutazione delle idee di Tönnies, molto aveva influito l’emarginazione dello studioso nella Germania guglielmina: da un lato il testo fu osteggiato dalle burocrazie prussiane per la vicinanza politica al nascente movimento operaio, dall’altro dedicò “pionieristiche ricerche” ai portuali ed alla gente di mare di Amburgo, svolgendo una sorta di ruolo di opposizione, ponendosi di conseguenza nella categoria dei battitori liberi. Storicamente le suggestioni del pensatore di Oldenswort sono state ri-attualizzate dalle culture organicistiche del Novecento (compreso il nazionalsocialismo), ma da queste letture militanti Tönnies preferì rimanere ben distante, distinguendosi dalle euforie del nascente regime hitleriano almeno quanto si pose lontano dalle “parrocchie” marxiste, pur avendo ben assimilato le critiche strutturali alla società industriale del filosofo de Il Capitale. Negli ultimi anni il comunitarismo del sociologo tedesco è stato uno dei punti di partenza nella formazione di un pensiero altermondialista, fondato sulle intuizioni anti-economiciste di Alain de Benoist e sul recupero del legame sociale postulato da Serge Latouche, Charles Taylor e Christopher Lasch.
A destra la prospettiva comunitaria è stata tra gli anni Settanta e Ottanta un orizzonte soprattutto esistenziale, indicato come rotta da seguire per opporsi all’idolatria dell’individualismo e del mercato. Da qui nasceva il bisogno di recuperare insieme comunità e senso del sacro, come sintetizzato da Franco Cardini in un intervento sulla rivista Elementi nel 1979: «C’è bisogno d’un restaurarsi del senso del sacro, di una qualità della vita, di un nuovo umanesimo che si sostituisca a quello dei tristi miti dell’individualismo, del profitto, del razionalismo e del progresso, che hanno ormai fatto il loro tempo». «Ogni convivenza – scriveva infatti Tönnies – confidenziale, intima, esclusiva (così scopriamo) viene intesa come vita in comunità; la società è invece il pubblico, è il mondo. In comunità con i suoi una persona si trova dalla nascita, legata a essi nel bene e nel male, mentre si va in società come in terra straniera. Il giovane viene messo in guardia contro la cattiva società; ma parlare di “cattiva comunità” è contrario al senso della lingua. I giuristi possono ben parlare della società domestica, se conoscono soltanto il concetto sociale di un’associazione; ma la “comunità” domestica, con i suoi infiniti effetti sull’anima umana, viene sentita da chiunque ne sia diventato partecipe. (…) La comunità è antica, mentre la società è nuova, come cosa e come nome». Il lessico comune diventa spia di un sentire diffuso. La comunità si delinea come luogo del proprio destino, nel quale ci si “riconosce” per costumi, fede, orizzonti; diventa l’antitesi del patto sociale-contrattuale che regola la convivenza nella società, dove i legami si fondano sull’interesse da perseguire e sui profitti da generare.
Il filosofo liberale Giuseppe Bedeschi colloca «l’opera di Tönnies all’interno di un vasto filone della cultura tedesca di ispirazione organicistica, che postula il recupero, a un livello superiore, di una mitica unità originaria perduta. Tale filone culturale, che ha avuto i suoi principali esponenti in Hegel e in Marx, ha accomunato in una stessa condanna la società borghese moderna e il pensiero liberale, considerato come consustanziale ad essa». La lettura di Comunità e società, infatti, corrobora la critica della mercificazione delle relazioni presente nelle società attuali, informate ad un credo liberalcapitalista, e allo stesso tempo consente di tenere alta la guardia di fronte a possibili miraggi utopistici. Lo scrittore Beniamino Placido, che considerava il saggio di Tönnies un preziosissimo classico, invitava a evitare ottuse idealizzazioni: «C’è la “comunità” e c’è la “società”. Nella “comunità” – continuava – gli uomini sono tenuti insieme da legami naturali, familiari innanzitutto. Gli affetti sono prevalenti. La solidarietà spontanea. Nella “società”, che tende irresistibilmente nel corso dei secoli a sostituire le “comunità”, gli uomini sono tenuti insieme dagli interessi, dai rapporti di scambio. Com’è bella la “comunità”: sembra dire Tönnies, e con lui Lasch. Com’è fredda, sconsolante la nostra moderna “società”: sembra dire Tönnies. (…) Sì, assicura il progresso, il benessere ma a prezzo di quali lacerazioni. Non sono convinto che la modernità, incolpata sempre di tutto, davvero c’entri. (…) E per converso ogni “comunità”, ogni permanenza in un utero protettivo, è sì rassicurante, ma anche soffocante. Persino avvilente. Ma sta di fatto che avendo deciso (e da tempo) di vivere in “società”, dentro rapporti artificiali esposti al rischio dell’anonimato, cerchiamo di continuo i conforti della “comunità”. Ne ricostruiamo una appena possiamo. Nella coppia, nell’ufficio, nel circolo di tennis (o di bridge) che frequentiamo. Una grande idea? Nient’ affatto. Un’idea semplicissima, elementare. Ma se la teniamo a mente, come Tönnies e Lasch facevano, la nostra quotidiana lettura del reale diventa più ricca, più soddisfacente. Ah, i classici. Che peccato averli già letti tutti. Che errore non leggerli più».
* Dal “Secolo d’Italia”, domenica 18 settembre 2011