L’intervista. Marco Tarchi: “I giovani neo e post-fascisti tra politica idee e potere”

rivoluzione impossibileLa giovinezza è sempre stata metafora di futuro, specchio nitido in cui riflette l’energia ancora incontaminata della forma. Dall’età classica il campo dell’arte attinge ispirazione da questo breve e fugace periodo della nostra esistenza, in cui energia vitale e inconsapevolezza assicurano la traghettata verso il domani. Nel ‘900 con l’ausilio delle due guerre mondiali, la giovinezza diventa mito, cui viene affidato il compito di costruire una società nuova e migliore. L’estetizzazione politica novecentesca si modella e si forgia su volti freschi e fieri, estranei al mondo dei  propri padri e avidi di rivoluzione.

Ribelli, irrequieti, i giovani missini apprendono dalla militanza combattente di Salò lo stile e sono infiammati da una stessa necessità di radicamento, di affermazione di una idea di sé. Avanzano nella storia del proprio partito convinti che “il domani debba appartenere loro” e sfidano i vertici su tematiche di politica estera e interna, “tifando confusamente”. Questo entusiasmo, ereditato, fa si che il MSI ottenga una partecipazione politica precoce rispetto a quella di altre formazioni partitiche e invidiata, per visibilità e numero. Come hanno vissuto questi giovani militanti il rapporto con il potere e la politica e cosa ne ha spento l’entusiasmo al punto di giungere a percentuali di disinteresse politico pari al 35, 5% come conferma il recente Rapporto Giovani? Risponde ai quesiti Marco Tarchi, professore ordinario della Facoltà di Scienze Politiche, presso l’Università Cesare Alfieri di Firenze, animatore delle riviste di metapolitica Diorama Letterario e Trasgressioni e osservatore attento dei risvolti politici contemporanei.

Le varie organizzazioni giovanili gravitanti intorno al MSI sono state il terreno privilegiato di reclutamento per la formazione della classe dirigente missina della prima Repubblica. Qual è stato in realtà il rapporto tra le organizzazioni giovanili e il MSI, di autonomia o solidarietà?

I due concetti non sono alternativi. Una voglia di autonomia dal partito è sempre stata coltivata da molti dei suoi militanti più giovani – lo documenta bene Antonio Carioti nei suoi due libri Gli orfani di Salò e I ragazzi della fiamma: una lettura che consiglio vivamente a chi voglia approfondire l’argomento –, ma di rado si è concretizzata, per vari motivi. Primo fra tutti, il fatto che Giovane Italia e Fuan prima, Fronte della gioventù poi, erano quasi sempre costretti a coabitare con il Msi e i suoi dirigenti a livello locale, in sezioni e federazioni. Non si può, inoltre, considerare l’ambiente giovanile missino come un tutt’unico: al suo interno esistevano differenze di sensibilità anche forti, correnti ideologiche, clan con i propri capi, e così via. Senza dimenticare che, anche lì, la distinzione proposta dal politologo Angelo Panebianco fra “credenti” e “carrieristi” trovava ampia conferma. Occorre sfrondare l’analisi della realtà dalle oleografie di comodo: le organizzazioni giovanili missine ospitavano i tipi umani più vari e governarle, anche nei nuclei locali, non era un compito facile. Ci si incontravano tutte le possibili varianti del tipo umano neofascista: dall’idealista più sfrenato al realista cinico, dall’intellettuale (raro) allo spostato (un po’ meno raro), dall’amante del dialogo al violento senza argomenti, passando per chi cercava di assemblare in sé i ruoli più disparati, dall’attacchino all’estensore di documenti ideologici.

“Rendere più intelligente la destra”, un po’ provocatoriamente potremmo definirlo il fine di un numero non esiguo di giovani militanti missini, sensibili agli stimoli contemporanei quanto annoiati dal nostalgismo patriottardo respirato nelle sezioni di partito. La Nuova Destra, i campi Hobbit, su piani di azione differenti, si possono considerare la risposta alla classe dirigente missina, che continuava a “nascondere la testa sotto la sabbia”?

I piani di azione, è opportuno sottolinearlo, si sono rivelati sensibilmente diversi, anche se si è cercato per un certo periodo di tenerli in stretto collegamento. Non bisogna dimenticare che durante il terzo Campo Hobbit, certamente il più riuscito, quando si tenne un incontro sul tema “La Nuova Destra”, il dibattito che ne seguì assunse quasi subito l’aspetto di un vivace scontro tra chi guardava con interesse ad un progetto metapolitico – che giudicava insufficiente, se non sterile, l’impegno politico così come era tradizionalmente inteso nell’ambiente e riteneva che per modificare le mentalità diffuse ci si dovesse battere con le armi della cultura – e chi lo tacciava di intellettualismo, puntando (letteralmente) sulla retorica esaltazione di chi “monta i palchi” e affigge i manifesti, contrapposto ai “topi di biblioteca”. Ho cercato di dar conto di quel contrasto nel mio libro La rivoluzione impossibile, pubblicato tre anni fa da Vallecchi, ma non sono sicuro che un ventenne di oggi si renda pienamente conto di cosa significhi, attualmente come allora, scegliere di percorrere l’una piuttosto che l’altra strada. Quanto poi al numero di militanti che volevano accrescere le capacità dell’ambiente missino – non “della destra”… – di capire il mondo e interpretarne l’evoluzione, onde potervi intervenire più efficacemente, forse non lo si può definire esiguo (direi che un paio di migliaia di giovani, in Italia, fossero più o meno convintamente su quella linea), ma di sicuro era molto meno consistente del numero di coloro che erano indifferenti alla questioni. Gli effetti di quel gap si sono visti. L’azione dei pochi non è riuscita, nel fondo, a vincere sulla inerzia dei molti.

Pino Rauti ostacolo o vero animatore della strategia culturale giovanile?

Messa così, la domanda è troppo drastica. Rauti e la sua corrente hanno avuto il grande merito di offrire spazi a chi, in ambiente giovanile e non solo, intendeva ridiscutere a fondo la strategia del Msi. È in quell’ambiente che si sono potute sviluppare alcune delle iniziative più ricche di stimoli (penso ai GRE, a “Linea”, ai Campi Hobbit, ma non solo). Tuttavia, Rauti non apprezzava – e, sostanzialmente, credo che non capisse – il desiderio di parecchi dei ragazzi e delle ragazze che gli erano politicamente vicini di ridiscutere, per certi versi, la stessa identità missina e, ancor più largamente, il rapporto del Msi con il fascismo (cioè, l’essenza stessa del neofascismo). Inoltre, a partire dal relativo successo di Linea Futura, la sua corrente congressuale del periodo 1976-1978, Rauti si è preoccupato molto dell’accesso, suo e dei suoi collaboratori, a posti di responsabilità ai vertici del partito, e questo lo ha indotto a mettere progressivamente in sordina alcuni degli accenti movimentistici che avevano caratterizzato la corrente e a distanziarsi da iniziative che trovava eccessivamente eterodosse. Comunque, non lo definirei né un “ostacolo” ai tentativi cui accennavo, né il loro “animatore”. Ne è stato, se vogliamo trovare un aggettivo, un facilitatore. Più o meno convinto a seconda dei casi e dei momenti.

La svolta di Fiuggi un abbandono innaturale della “casa del padre”, ma oramai un processo da completare. La base militante giovanile lascia la strada per la carriera, dimentica il pathos per la perizia; da credente a carrierista. Qual è la fisionomia del militante finiano?

Perché “processo da completare”? A cosa servirebbe, oggi, insistere su quella via, dato che le premesse su cui era stata intrapresa sono state smentite dal percorso successivo degli eventi? Se si vuol dire che in quell’occasione il confronto con il fascismo (e la destra) è stato insincero, o ambiguo, o frettoloso, non si può che essere d’accordo, ma allora si tratterebbe – per chi ha accettato le scelte del congresso di Fiuggi – di ripartire da capo. La zavorra delle nostalgie non è stata abbandonata, ma solo rimossa: lo si vede chiaramente adesso; basta dare un’occhiata a siti, blog, rivistine dove prosperano le più velleitarie ed anacronistiche ipotesi di “rifondazione missina” (spesso pudico aggettivo, usato per non dover e poter dire fascista). Non c’è stata alcuna consapevole cernita di quel che c’era da conservare e quel che andava eliminato nel lascito ideologico sul quale il Msi aveva costruito identità, fortune e sfortune. E le ambiguità maggiori sono rimaste soprattutto fra i giovani. Che hanno continuato a riproporre le idee di sempre, gli stessi autori, gli stessi simboli, le stesse icone. Basta una consultazione di giornali, documenti, foto per rendersene conto. E le cose non sono granché cambiate oggi. Se si toglie qualche spruzzatina di modernismo – eclettica, come nello stile dei “fascisti immaginari” e dei loro ispiratori, a cui piace mescolare incongruamente un po’ di tutto per apparire cool (un tempo si diceva à la page, ma alla dittatura dell’americano non si sfugge), o strumentale ma culturalmente più fondata, come quando si cita o si intervista Alain de Benoist, o si rende un postumo omaggio alla Nuova Destra –, gli stimoli all’aggregazione rimangono quelli di sempre. E la distanza dalla propria epoca e dalle sue sensibilità si accresce ogni giorno. Il giovane militante dell’“era Fini” nascondeva in sé questa duplicità. E per questo Alleanza nazionale non dava granché spazio alle sue organizzazioni giovanili. Che erano utili per fare massa ai comizi o svolgere attività propagandistiche, ma non dovevano pensare in proprio. Altrimenti, l’immagine esibita avrebbe potuto mostrare crepe ed apparire una facciata di cartapesta.

Ecologismo, politica al femminile, volontariato. Le tematiche dagli anni settanta impostesi all’attenzione giovanile dei militanti missini perdono dinamicità nella neo organizzazione giovanile di Azione Giovani. Le tensioni tra destra sociale e modernizzazione si risolvono nel rispolverare la deriva anticomunista, foriera di successi soprattutto in ambito scolastico?

La “destra sociale”, al di là della buona fede con cui l’hanno interpretata e sostenuta non pochi dei suoi sostenitori, mi è sempre parsa, se non un bluff, una contraddizione in termini. O un paravento per chi, pur non contestando la scelta entrista dei vertici, voleva continuare ad ammiccare a sentimenti e umori di antico conio per non perdere, o allargare, la propria base. Ci sono testimonianze anche recenti  (penso al “romanzo militante” di Fabrizio Crivellari Colle Oppio vigila) che rendono bene conto delle spigolose sfaccettature di quella proposta politica. Che voleva raggiungere certi obiettivi (ad esempio, proiettarsi oltre lo spartiacque sinistra/destra) ma non si dotava degli strumenti mentali per riuscirci, e sfuggiva all’autocritica gettando la colpa sull’insensibilità degli eterni nemici.

Nel 2004 Giorgia Meloni viene eletta alla Presidenza di Azione giovani, su una esigua partecipazione femminile al movimento.  Traguardo importante o strategia di consolidamento interno dell’operazione finiana?

In sé, l’ascesa nelle gerarchie giovanili di una donna è un elemento di innovazione importante, che completa un processo faticosamente avviato negli anni Settanta. Prima del 1977 – data in cui, dopo molti anni, si tenne finalmente una assemblea nazionale giovanile, anche se priva della facoltà di elezione diretta del segretario –, le presenze femminili nell’Esecutivo o nella Direzione delle organizzazioni giovanili erano state non solo scarse, ma anche puramente di facciata. I massimi dirigenti erano fra i primi, in convegni e corsi di aggiornamento, a fare dell’ironia sulla possibilità delle donne di svolgere ruoli di rilievo. Da allora in poi, qualcosa era cambiato, ma molto restava da fare. Non direi peraltro che la presidenza Meloni abbia rovesciato davvero la situazione: quello che ama(va) definirsi postfascista è un microcosmo tuttora venato di robuste dosi di maschilismo. Anche se non può rifiutarsi di disconoscere completamente l’evoluzione che si è verificata nella società riguardo al riconoscimento della parità di opportunità potenziali fra i sessi.

L’istituzionalizzazione del partito ha concesso al movimento giovanile spazi di agibilità politica nettamente superiori, ma la cultura politica ne ha guadagnato?

Se si riferisce ad Alleanza nazionale, mi pare che questa agibilità politica abbia significato soprattutto la possibilità di un buon numero di esponenti di Azione giovani di presentarsi alle varie competizioni elettorali con buone possibilità di successo. Cioè di diventare consiglieri comunali, provinciali o regionali e, in alcuni casi, deputati. Questa ascesa di singoli elementi è stata però controbilanciata da una evidente perdita di peso dell’organizzazione giovanile in quanto tale nella proiezione esterna della immagine del partito. Fra gli anni Settanta e Ottanta, ma anche un ventennio prima, i giovani missini si erano fatti notare per capacità innovativa, creatività, vivacità culturale. Di tutto questo, in An è rimasta a stento una timida traccia. A farsi notare erano solo Fini – massimamente – e i suoi “colonnelli”. Dei giovani si parlava, in qualche riga, sui giornali quando organizzavano la loro festa annuale. Ma perché lì facevano apparizioni, e affermazioni significative, Berlusconi o Fini, non per quello che dicevano gli esponenti di Azione giovani.

Nel 1970 Adriano Romualdi scriveva :”La destra non aveva più parole d’ordine da dare alla gioventù…in un’epoca di crescente eccitazione dei giovani, essa diceva loro: statevi buoni. Fossilizzate nelle trincee di retroguardia del patriottismo borghese, le organizzazioni giovanili ufficiali vegetavano senza più contatto alcuno col mondo delle idee, della cultura, della storia. È bastato un soffio di vento a spazzare questo immobilismo che voleva essere furbesco, ma era soltanto cretino…” La destra oggi è in grado di dare queste “parole d’ordine” alle giovani generazioni?

Non direi. Non vedo quegli elementi di cui ho accennato prima: né un’innovazione sostanziale, né una vena di creatività autentica – che cioè non sia puro desiderio di stupire, virtuosismo da giocolieri con idee altrui –, né vivacità di ricerca culturale. Bisogna però avere anche il coraggio, o la faccia tosta, di dire che neanche Adriano Romualdi aveva fatto grandi passi avanti in questa direzione. Aveva senza dubbio nobilitato, con la brillantezza intellettuale che gli va riconosciuto, idee e miti attinte dal passato, spaziando da Platone a Nietzsche, dalla Rivoluzione Conservatrice al nazionalsocialismo, riscaldando – ed esaltando – cuori, ma il suo sguardo sulla realtà contemporanea era rimasto ancorato a paradigmi reazionari: contro i “capelloni pidocchiosi” della contestazione studentesca, per la Nato unica forma di resistenza alla minaccia comunista… Di autori come lui, con il dovuto rispetto, bisognerebbe evitare di fare delle icone da venerare. Le loro opere vanno passate al setaccio di un serio vaglio critico.

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Marina Simeone

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