Piacerebbe scrivere una lettera alla grande anima di Curzio Malaparte. “Caro Curzio, ti scriviamo…” Sentiamo ciò come un obbligo: scrivere a Malaparte per dire che ci manca l’Arcitaliano, l’uomo di avventure della penna e di conversioni ideali.
“Curzio, tu conosci la vergogna della sconfitta…” Così potrebbe avere avvio la lettera. Perché Malaparte guarda negli occhi della sconfitta, quella del 1945, e racconta la storia della devastazione nazionale, racconta senza alcun pudore. Se siamo alla ricerca di un affresco letterario di un’Italia cancellata moralmente, allora, dobbiamo rileggere Kaputt (1944) e La pelle (1949).
“Tu potresti narrarci l’Italia odierna, dato che conosci intimamente il nostro paese…” E Malaparte si sfogherebbe sì, urlando da sindacalista e da letterato strapaesano; e il suo sfogo diverrebbe vero romanzo storico – cuore e potente scrittura! – alla faccia del realismo contemporaneo tipo Walter Siti.
“Tu, un tipo coraggioso, anche se ti nominano come un cinico, un arrivista…” Ma Curzio è uomo che accetta la sentenza e finisce al confino nel 1933. E’ un sedicenne che combatte sul fronte delle Argonne nel 1916. E’ un giornalista che sfida, con la penna e la spada, colleghi flaccidi e principi boriosi. La sua storia, tutta italiana, ora ci fa capire che solo le umane avventure spiegano che cos’è la realtà.
Ah, se potesse mandarci un messaggio da lassù, Curzio Suckert! Ci direbbe di smetterla di piangerci addosso. Di credere di essere italiani, come è stato lui. Essere italiani per sparare contro chiunque e Curzio spara su Balbo o su Agnelli, ma, prima di tutto, bombarda sulla cultura che dimentica di essere azione, di essere “…vita, virilità, forza e fede” (da Il Selvaggio). Un giorno Mussolini dice di Malaparte ufficiale in Africa: “Quello lì è capace di mettersi a capo di qualche banda ribelle e di voler conquistare l’Italia.”
I suoi articoli piacciono al Duce, a Cecchi, a Montanelli,.. il quale di lui scrive, “Era un bravaccio ammazzatutti che partiva per le sue spericolate conquiste di uomini, di donne, di trincee, di gloria…”
“Ora Curzio, agli scrittori di plastica, manda qualche consiglio per scrivere come te…” La sua penna è dannunziana. Però più onesta di quella del Vate. Egli confessa che avrebbe voluto scrivere come Hemingway. Tuttavia, la sua lingua letteraria resta unica, si presenta ignuda e lirica nello stesso momento.
Rileggiamo il capitolo Occhio di vetro da Kaput. Un ufficiale tedesco vuole ammazzare un bambino partigiano russo; e questa scena supera il sublime Remarque; e questa scena mette i brividi. Eppure le menzogne della critica ribadiscono che Malaparte resta più un pennivendolo e meno un artista.
Invece, noi vorremmo trascrivere sui muri citazioni malapartiane. Questa sembra profetica, “Un giorno o l’altro, se tutto andrà bene, i giovani saranno venduti nelle strade per qualcosa di gran lunga peggiore della paura e della fame” ( La pelle ).
“E’ vero, Curzio, tu credevi nella gioventù. Tu, da giovane, hai diretto giornali.” Ventottenne strafottente, Malaparte si paragona a Leo Longanesi con cui lavora ne L’Italiano. Poi trentenne dirige La Stampa di Torino. Conquista editori e lettori. Il giovane Curzio/Kurt ha stoffa. Pertanto, egli resta per noi come un simbolo/sfida alla gerontocrazia di sempre. Come un attacco all’immobilismo politico, quello che lascia i giovani ad annegare nella precarietà.
“Forse non lo sai, ma il tuo paese è fermo. Vive in un medioevo tecnologico. E i giovani, quelli amati da te, scappano dall’Italia.” La vita italiana, purtroppo, gli sembrerebbe quella del 1943. Con i politici perdenti, con i ‘politici da armistizio’, con gli sconfitti che si presentano da statisti trionfanti, ma senza alcuna vergogna.
Così la politica odierna pare che parli con la lingua del capitano malapartiano, il quale, nel romanzo La pelle, ironizza sugli italiani che fan delle sconfitte le loro vittorie,“Italiani, la guerra che abbiamo gloriosamente perduta, è finalmente vinta.”
“Caro Curzio, ti vorremmo vicino…” per stimolare il nostro pensiero anticonformista. Per guardare negli occhi della crisi contemporanea. Con uno sguardo audace. Come lo sguardo malapartiano che penetra infondo le pupille di Togliatti o di Scelba. Sguardo insieme reazionario e rivoluzionario di chi vuole essere scrittore, politico, artigliere, corrispondente di guerra, dandy, fascista, marcista romano della prima ora, comunista e santo, come in ‘Un santo come me’, da Donna come me (1940).
In sostanza, puro snobbismo camaleontico (A.Gramsci). O vera imprenditoria intellettuale di se stesso, che avrebbe molto successo oggi (!) Lui, uno scrittore che scrive con la luce; vi sono pagine malapartiane su cui forse si è esercitato Italo Calvino. Curzio, un intellettuale spregiudicato; ma solo con questi artisti si prepara il domani.
Questa tout-court è una vicenda di vitalismo italiano. Oh, l’inesauribile vitalismo di destrorso! E non venga il nostro lettore a ricordarci che Malaparte accetta la tessera del Pci dalle mani di Togliatti. Non venga perché chi scrive sa che Padre V.Rotondi, confessore dello scrittore, vede Curzio strappare la tessera comunista prima di morire, in un gesto teatrale, l’ultima grande posa malapartiana.