Scrittori italiani, fascismo e potere visti da Ferrarotti

Una antologia di saggi e scritti del sociologo pubblicata dall'editore Solfanelli

Il saggio di Ferrarotti

È da poco nelle librerie, per i tipi di Solfanelli, una raccolta di saggi del sociologo Franco Ferrarotti. Ci riferiamo a, Scrittori italiani e fascismo e altre pagine sparse (per ordini: 335/6499393, edizionisolfanelli@yahoo.it, pp.59, euro8,00). Il titolo non tragga in inganno: il tema del rapporto tra scrittori e fascismo é solo uno tra i tanti di cui l’autore si occupa nella silloge. Il testo è breve, accattivante sotto il profilo stilistico e introduce il lettore ai problemi fondamentali e irrisolti della storia italiana contemporanea. Gli scritti risalgono a qualche decennio fa, usciti su pubblicazioni periodiche o su quotidiani, ma sono, come ci apprestiamo a mostrare, di stringente attualità. Alcuni passaggi del testo presentano gli aspetti salienti e problematici della società liquida.

   Presentando il volume di Francesca Petrocchi, Scrittori italiani e fascismo, uscito nel 1997, Ferrarotti rileva il servilismo che i nostri chierici mostrarono nei confronti dell’uomo forte del tempo, Mussolini. Al Duce, deferenti, si rivolsero chiedendo prebende, favori, facilitazioni di carriera, intellettuali del calibro di Corrado Alvaro, Giacomo Debenedetti, Alberto Moravia, Cesare Zavattini, Norberto Bobbio, Giuseppe Ungaretti. Il poeta dell’ermetismo perorò la nascita del “sindacalismo artistico”, individuando in Soffici il leader di tale possibile organizzazione. Tali “produttori di cultura”, chiosa il noto sociologo, erano spinti nelle braccia del regime dalla: «voglia di potere e (dal)la conferma del proprio privilegio sociale» (p. 10). Nella storia italiana i chierici hanno, da sempre, mostrato un atteggiamento servile nei confronti del ceto politico al potere. A tale atteggiamento di subalternità si è nei secoli accompagnato, lo notava già Leopardi, un: «irridente, irresponsabile cinismo delle classi dirigenti […], un’assenza di spirito civico» (p. 11). La “doppia verità”, con Pomponazzi, è divenuta costume nazionale, non solo degli intellettuali: ci lamentiamo in privato e ci “acconciamo” con il potere in pubblico: «Il feroce anticlericale Gioacchino Belli si guadagna il pane lavorando negli uffici della censura vaticana» (p. 12).

    L’italiano medio è “umile” in senso etimologico, vive radicato nell’humus della propria condizione esistenziale, risultato di una storia millenaria e, proprio per questo, è comunque capace di molte vite. L’Italia è, non casualmente, paese dei Nuovi Inizi, terra di eccezionali “singolarità” (quelle del Rinascimento, ad esempio), ma anche luogo in cui trionfa il narcisismo. Venuto meno l’Impero romano, abbiamo creato la Chiesa cattolica. Ferrarotti ricorda Niceforo e la sua definizione dell’Italia quale “arcipelago di culture”, cosa che ha determinato la nostra ricchezza, ha stimolato la nostra creatività. Essa, si badi, sta alla radice della tendenza italiana al “voler piacere”, al “venire incontro al prossimo”, al “bel mentire”. Propensione destabilizzante che, creando insicurezza sociale, ha indotto: «il proliferare delle circolari, memorandum, “leggine” […] ordini e contrordini» (p. 19). Da noi, sulla “carta” tutto è risolto, niente lo è mai realmente. Perfino la diffusione del cellulare in Italia, ha un’evidente spiegazione: «il collante che tiene insieme la vita italiana è la parola viva, la “viva voce”» (p. 20), un tempo accompagnata dal contatto fisico, dal “faccia a faccia”.

   L’Italia, quindi, potrà sopravvivere alla società liquida, in cui la fisicità, la corporeità è negata, si chiede lo studioso? L’autore è ottimista, a condizione che, finalmente, sia attuata una “riforma” radicale, innanzitutto delle istituzioni politiche. La democrazia italiana, dopo la caduta del Muro di Berlino, è rimasta zoppa. Il cittadino si sente solo, isolato: manca un’effettiva proposta di alternativa politica, in quanto le nostre classi dirigenti, di destra, centro e sinistra, al progetto, hanno sempre preferito il mero “durare”, “sopravvivere a se stesse”, dimenticando di dirigere, di condurre la cosa pubblica. L’idolatria del mercato, ha obliato i rischi che esso implica e, così, nessuno ha pensato alla necessità di guidarlo. Insomma, da noi continuano a farla da padroni i “Gattopardi”: nella sostanza il potere, supportato da un pretenzioso ceto intellettuale che ne tesse le lodi, non cambia. Tale contesto è, peraltro, aggravato dalla sempre più diffusa subalternità economica di ampi strati popolari e borghesi. Questi, più che vivere, e il problema non riguarda solo l’Italia, sembrano semplicemente voler “sopravvivere”.    

   La democrazia è stata svuotata di senso e consenso, è ridotta a mera procedura, e ampi strati popolari sono sempre meno partecipi, distanti anni luce dalla politica. L’innovazione tecnologica, informatica e telematica, ha fatto il resto. Viviamo in un mondo smaterializzato: «e nello stesso tempo smemorato» (p. 41). Eppure, noi siamo: «ciò che ricordiamo di essere stati» (p. 41). Il riferimento alla tradizione, non intesa in modo statico, tradizionalistico, può essere lo strumento, rileva Ferrarotti, per riannodare il tessuto comunitario, non solo in Italia. La tradizione: «può essere rivoluzionaria perché contiene semi, valori […] non ancora inventati sul piano pratico politico» (p. 41). Benjamin pensava, al pari del nostro sociologo, che il “passato” contenesse in sé un fondo inespresso da attivare sul piano storico. La cosa è tanto più vera nella società liquida, in cui la tecnica permette la comunicazione planetaria in tempo reale ma: «Non solo non c’è più comunione fra coloro che comunicano. Si comunica “a”, non più “con”, cioè a tutti e a nessuno» (p. 42). Quale la soluzione per Ferrarotti? Creare un contesto politico che, come aveva suggerito Adriano Olivetti, sia in grado di produrre uno sviluppo: «a misura d’uomo» (p. 44). A ciò sarà possibile giungere attraverso l’integrazione della cultura “alta” con quella popolare.

   La cultura, per chi scrive, coincide con la tradizione: «come insieme di esperienze e di valori condivisi e convissuti […] come la base, esistenziale e nello stesso tempo concettuale, della democrazia» (p. 53). Il rivoluzionario-conservatore Moeller van den Bruck non aveva forse definito la democrazia nei termini della: «partecipazione di un popolo al proprio destino»? Un’indicazione essenziale, da perseguire nel tempo presente, per uscire dall’impasse nella quale viviamo.

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Giovani Sessa

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