Quel giorno alle Giubbe Rosse con Pasolini Zanelli, un principe del giornalismo

Il ricordo di una giornata con il grande inviato speciale, sempre coraggioso e controcorrente nei suoi reportage

Alberto Pasolini Zanelli

Dalla parte di Lee, un saggio di Alberto Pasolini Zanelli

Quando avevo da poco smesso i calzoni corti, ma leggevo tutti i giorni “La Nazione”, il quotidiano di Firenze che all’epoca aveva un’influenza ben più ampia dei confini regionali, c’erano tre giornalisti di cui non perdevo mai un articolo. Il primo era Enrico Mattei, il direttore, un liberale galantuomo che dopo l’alluvione del 1966 riuscì con i suoi graffianti appelli ai politici ad assicurare alla città devastata dalle acque dell’Arno quegli aiuti che in un primo tempo le erano stati negati. L’altro era Beppe Pegolotti, che ogni lunedì, sulle pagine sportive del giornale dedicava alle prodezze della Fiorentina un articolo che era molto di più di una cronaca sportiva o di un banale commento, ma qualcosa di simile a un elzeviro. A lui debbo la mia effimera ma intensa passione per la squadra Viola, che mi vide testimone del suo secondo e ultimo scudetto. In seguito, quasi casualmente, scoprii che la sua vera vocazione era stata quella dell’inviato di guerra e che, caduto in mano degli inglesi durante la campagna di Libia, aveva fatto parte di un irriducibile plotone di prigionieri non cooperatori confinati in un “criminal camp” ai piedi dell’Himalaya. La sua conversione al giornalismo sportivo era stata forse dettata al rientro in patria da motivi di opportunità politica. 

Ma la firma della “Nazione” (e del “Resto del Carlino”: i due quotidiani avevano molti servizi in comune) che seguivo con maggior attenzione era Alberto Pasolini Zanelli, inviato speciale e corrispondente estero. Lo ammiravo (a ragione) per il coraggio delle prese di posizione ai tempi della guerra del Vietnam e (a torto) per la sua prolificità. Ogni giorno m’immaginavo che apparisse sulle colonne del quotidiano un suo articolo, firmato o semplicemente siglato. In realtà, come scoprii più tardi, A.P. era semplicemente l’abbreviazione di Associated Press, che la direzione del quotidiano fiorentino utilizzava per non ammettere di far ricorso in prima pagina a dispacci d’agenzia.

La “Nazione” aveva anche un altro grande inviato speciale, Giancarlo Zanfrognini, che aveva il dono non solo di raccontare, ma di prevedere gli eventi. Almeno così sostenevano i maligni, perché, corrispondente dal Cile nelle settimane che videro la caduta di Allende, aveva già pronto l’articolo prima ancora che scattasse il golpe, visti i buoni rapporti intrattenuti con le gerarchie militari. Ma, se pur carente in capacità profetiche rispetto al collega, Pasolini Zanelli mi piaceva di più, per lo spessore anche letterario dei suoi scritti, spazianti dalla cronaca alle notazioni di costume, e per la sua profonda conoscenza della società statunitense.

Dopo i vent’anni, seguii da lontano Pasolini Zanelli, che nel frattempo aveva lasciato la “Nazione” per il “Giornale” di Montanelli, lessi e recensii alcuni suoi libri – raccolte di commenti e spesso di elzeviri, che però a distanza di anni perdevano spesso lo smalto – ed ebbi modo di apprezzare la generosità e la correttezza con cui aveva fatto approdare al quotidiano milanese un amico reduce da una tumultuosa esperienza in un giornale di Lugano. Però non avevo mai avuto occasione di conoscerlo di persona. L’occasione arrivò tardi, l’11 maggio del 2010, quando fui chiamato a presentare alle “Giubbe Rosse” il suo ultimo libro, L’ora di Telemaco, uscito con prefazione di Sergio Romano per i tipi delle edizioni Settecolori.

Non sono mai stato un cacciatore di incontri con personaggi celebri, anche perché mi è sempre rimbombato nell’orecchio il temibile e purtroppo veridico aforisma di Flaubert: “Il ne faut pas toucher aux idoles: la dorure en reste aux mains”. In quell’occasione non mi rimase in mano la “doratura”: Pasolini Zanelli mi colpì per il suo aplomb (proveniva da un’aristocratica famiglia del patriziato bolognese), persino per l’elegante nonchalance con cui, non resistendo al caldo della sala, si spogliò per togliersi davanti a tutti il gilè rosso chiaro che aveva indossato sotto un impeccabile rigato blu. Eppure il mio idolo mi lasciò lo stesso perplesso, quando scoprii che il vecchio sostenitore dei presidenti repubblicani, amico personale di Reagan, manifestava apprezzamento per Obama. 

Nel corso dell’incontro, e della sobria cena che ne seguì (il commensale era astemio), ebbi modo di comprendere i motivi di quella scelta che a me era parsa incomprensibile. Pasolini Zanelli era stato comprensibilmente deluso dall’incultura della destra repubblicana e in particolare da Bush Jr, che in un primo tempo aveva sostenuto e apprezzato più del padre. Sperava di conseguenza in un rinnovamento che, visti gli esiti deleteri delle variopinte rivoluzioni sponsorizzate da Obama, di cui ancor oggi paghiamo le conseguenze, si sarebbe rivelato rovinoso. Parafrasando il titolo dell’autobiografia di un mattatore del teatro, di questo mattatore del giornalismo si poteva dire che aveva un grande passato dietro le spalle: ma non tanto il suo passato professionale, quanto il passato di un mondo – l’America di Reagan e di Bush senior, trionfatrice nella guerra fredda – che era malinconicamente tramontata. Più che discutere del presente, anche perché su Obana avremmo finito per entrare in attrito, preferii parlare del mondo dei grandi inviati di cui il mio commensale era stato uno degli ultimi esemplari. 

Scoprii per esempio che Pasolini Zanelli non sapeva scrivere a macchina, e non scriveva le sue corrispondenze neppure a mano. Le dettava a voce, al “dimafonista”, figura ormai scomparsa nei giornali, senza neppure avere dinanzi un canovaccio. Apparteneva a una generazione di inviati viziatissimi nelle note spese, ma efficientissimi, disponibili, con la valigia sempre pronta, a recarsi in ogni angolo del mondo in poche ore. Mi raccontò di avere visto uscire il suo primo articolo (“una noiosissima recensione”) a quindici anni e di avere pubblicato nel 1961 la sua prima corrispondenza estera, un articolo sportivo, dalla Spagna, per “Stadio”, di essere stato prima corrispondente del “Carlino” da Bonn, poi, dopo che Girolamo Modesti era stato nominato direttore del quotidiano bolognese, da Washington, ma con rapporto di dipendenza dalla “Nazione”. Quotidiano, quest’ultimo, che lasciò per il “Giornale” nel 1977, quando un’amica dell’amministratore delegato, femminista arrabbiata, almeno per i parametri dell’epoca, ottenne un contratto di collaborazione.

Colsi l’occasione per chiedergli ragguagli sulla vera storia del “Giornale” e del rapporto fra Berlusconi e Montanelli. Mi fornì la sua versione, che ovviamente dev’essere presa con beneficio d’inventario, ma che secondo me contiene un fondo di verità. Grandissimo giornalista, Montanelli però non era un direttore moderno, alla Scalfari, dotato anche di capacità organizzative. I conti del “Giornale” erano costantemente in rosso e ogni anno era costretto a fare “col cappello in mano” il giro dei suoi amici industriali, da Agnelli a Cefis, per quadrare il bilancio. Alla fine arrivò Berlusconi, che però non versò contributi a fondo perduto, ma acquistò le azioni del quotidiano, rimasto formalmente sino ad allora una cooperativa di giornalisti; tutti i redattori accettarono la vendita, tranne Pasolini Zanelli. Il resto è storia ben nota, cui il mio commensale aggiunse alcuni particolari piccanti sui giorni che precedettero il divorzio fra Montanelli e la nuova proprietà, che preferisco per ovvii motivi non riferire.

Gli chiesi anche se fosse vera la voce che Berlusconi l’avrebbe voluto come direttore dopo la dipartita di Montanelli. Negò recisamente, spiegandomi che invece era stato quest’ultimo, nel 1989, a volerlo come condirettore, ma lui preferì rifiutare: stava troppo bene in America. Fu, forse, una fortuna per lui, non per il “Giornale”. Al posto suo Montanelli scelse Federico Orlando, con cui cominciò la deriva di sinistra e il conseguente declino del quotidiano, che cominciò allora a perdere buona parte dei suoi lettori moderati. 

Il discorso cadde inevitabilmente su Feltri, che stimava professionalmente, e cui era grato di averlo sempre valorizzato dandogli carta bianca, ma non rinunciò a ricordare un aneddoto sulla sua proverbiale avarizia. Era il 1997 ed era di ritorno con lui da Montecarlo, dove era stato festeggiato per i suoi vent’anni di permanenza al “Giornale”. Strada facendo, si fermarono a cena in un ristorante piemontese. Pasolini Zanelli si sentì in dovere di pagare il conto, ma sulle prime la sua carta di credito non funzionò. Feltri, cui nessuno aveva chiesto nulla, si sentì subito in dovere di precisare che non aveva soldi con sé. Poi, per fortuna, il collegamento tornò. Gli feci notare che la parsimonia di Feltri era quella di chi aveva avuto un’infanzia povera, e ne convenne, aggiungendo anzi altri maliziosi aneddoti sull’argomento.

La nostra cena finì presto, perché Pasolini Zanelli doveva prendere di fretta l’ultimo eurostar per Milano. Lo accompagnai in taxi fino all’Hotel Villa Medici, dove doveva ancora chiudere la valigia, e poi alla stazione di Santa Maria Novella. Aveva un largo margine per arrivare al treno, ma scappò di corsa lasciandomi, insieme a molti scampoli della sua straordinaria esperienza di inviato – di cui per evitare querele ho citato solo i più citabili, – il conto del taxi da pagare. Quello che mi aveva raccontato valeva molto più del prezzo della corsa,  ma non potei fare a meno di pensare che a furia di lavorare con Feltri  il vecchio A.P.Z. si era un po’ infeltrito anche lui.

Enrico Nistri

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