Aspide. Didionnaire, l’album fotografico di una vera giornalista americana

La variegata raccolta di brevi saggi di Joan Didion è stata tradotta da il Saggiatore con il titolo “Perché scrivo”

Didion, Perché scrivo

Let me tell you what I mean”: questo era il titolo originale, perfetto nella sua colloquialità, assolutamente americana, della variegata raccolta di brevi saggi di Joan Didion che il Saggiatore ha meritoriamente tradotto e pubblicato alla fine del 2022, con il più convenzionale e rassicurante titolo “Perché scrivo”. Titolo rubato ad Orwell, peraltro, eppure non a ufo, anzi. Probabilmente a Orwell sarebbe piaciuta tanto quanto è piaciuta a Bret Easton Ellis questa donna di Sacramento con gli occhi di fotografa – non a caso ha lavorato anche a Vogue, assistendo agli shooting di svariati maestri dell’ottava arte, tra cui l’anticonformista par excellence, Robert Mapplethorpe, nonché a una surreale intervista a Nancy Reagan. 

Ciò che impressiona di Didion è la sua capacità di spaziare da un argomento all’altro, dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo, dall’arte alla sociologia, dal marketing al giornalismo, conservando la propria autonomia di giudizio e la propria visione, unica e personale, e il proprio stile pulito e affilato, senza orpelli. 

Didion analizza, descrive, a volte perfino confessa – confessa candidamente di non essere stata ammessa a Stanford, di aver pianto e meditato il suicidio per questo, quando ancora non si era ancora resa conto “in modo viscerale che avere 19 anni non era una condizione a lungo termine”,  di essersi poi iscritta a Berkeley, di aver sofferto della “sindrome dell’impostore” durante un seminario universitario particolarmente selettivo, vestendosi in modo da non dare nell’occhio per non essere costretta a leggere in pubblico i suoi racconti, ma anche che “scrivere è un atto aggressivo, se non proprio ostile”, e che “si può mascherare l’aggressività quanto si vuole, con veli di subordinate, aggettivi, congiuntivi azzardati, ellissi ed evasioni […] ma non si può negare il fatto che mettere parole sulla carta sia la tattica di un bullo nascosto, un’invasione, un’imposizione della sensibilità di chi scrive nello spazio più privato del lettore”. Eppure, anche quando confessa, non indulge in sentimentalismi da libro Cuore, bensì espone, complice l’esperienza accumulata nel corso degli anni (i saggi della raccolta spaziano dagli anni ’60 ai primi 2000), le sue perplessità e le sue conquiste come fosse sdraiata sul lettino di uno psicanalista. 

Di sé, in “Why I write”, scrive: “In quegli anni viaggiavo con un passaporto che sapevo essere del tutto precario, falso: sapevo di non avere diritto di cittadinanza nel mondo delle idee. Sapevo di non saper pensare. Allora sapevo solo quel che sapevo di non saper fare. Allora, sapevo solo chi non ero, e mi ci vollero un po’ di anni per scoprire chi fossi. Ossia una scrittrice. Con ciò intendo non una ‘buona’ scrittrice, o una ‘cattiva’ scrittrice, ma semplicemente una scrittrice, una persona le cui ore più assorte e appassionate sono spese nel sistemare parole su un pezzo di carta”. Così, senza vergogna, e malgrado la consapevolezza che “la particolarità dell’essere uno scrittore è che qualsiasi iniziativa implica l’umiliazione mortale di vedere le proprie parole stampate”. 

La stessa chirurgica lucidità che traspare dalle sue autodiagnosi Didion la impiega nelle diagnosi rivolte all’esterno: in “Alicia e la stampa underground” – quadro clinico del giornalismo americano degli anni ’60 –  punta il dito sul sempiterno problema della stampa “ufficiale”: la scarsa obiettività e i giornalisti “responsabili” e “confidenti”, anzi, “partecipanti”, quelli che cenano con Henry Ford e ballano al “Le Club”, laddove la stampa underground ha i difetti “di un amico, non di un monolite”; in “Raggiungere la serenità” denuncia la serenità artefatta dell’America provinciale, quella di “Suburbicon” dei fratelli Coen; in “Gita a Xanadu” la spoetizzazione operata dal turismo di massa, che “se rende un luogo disponibile alla visita, in un certo senso lo sottrae all’immaginazione”; in “Everywoman.com” tratteggia il ritratto della conduttrice televisiva e imprenditrice Martha Stewart come un esperimento di marketing perfettamente riuscito, una Ferragni d’Oltreoceano che si vende non come una “superwoman” ma come un’“everywoman”.

E in tutto ciò l’atteggiamento di Didion, ben lungi dal compiacersi della sua causticità, ricorda quello di un’altra ragguardevole intellettuale del Novecento, Zinaida Gippius, che al termine di un breve ritratto parigino di inizio secolo (di prossima uscita per Aspis), scriveva “Be’, e allora? Ma niente. Conclusioni non traggo. Io fotografo soltanto”. 

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Camilla Scarpa

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