Henry de Montherlant nel ricordo dello scrittore non conformista Vintilă Horia

"Queste parole sono state scritte dodici anni prima della morte dello scrittore. Il segreto metafisico che chiude la sua vita mai lo conosceremo"

 

Henry de Montherlant, foto Flicr di jean louis mazieres

In occasione della pubblicazione dell’inedito Giulio Cesare. Dialogo con un’ombra (Aragno) di Montherlant, che abbiamo già recensito su «Barbadillo», pubblichiamo questo raro scritto in cui Vintilă Horia traccia un rapido profilo dell’autore francese riportando – peraltro – un estratto di una missiva da lui ricevuta da Montherlant che testimonia ancora una volta dell’amore dello scrittore per l’antica Roma.

«Mai sono arrivato a conoscerlo personalmente, malgrado il desiderio che ho avuto sempre di parlare con lui, perché Montherlant fu uno degli autori che più mi piacquero in gioventù: una preferenza dovuta certamente allo spirito eroico e battagliero della sua opera, ed anche a quell’anelito di servire gli uomini senza umiliarsi, senza rinunciare a un solo quantum della sua dignità. E, molto più tardi, a Parigi o a Madrid, quando scoprii le bellezze del suo teatro (La regina morta, Don Giovanni, Il cardinale di Spagna), quando scoprii il timido e vibrante orgoglio dell’autore dei Carnets e delle brevi annotazioni di Vai a giuocare con quella polvere, cominciai a considerare Montherlant come uno degli spiriti più degni di rispetto del nostro secolo.

Sempre ho respinto l’idea di avere un maestro anche se fosse stato un classico di altri tempi, ma Montherlant mi sarebbe piaciuto chiamarlo «Maître», non perché tra la sua letteratura e la mia ci fosse qualche possibilità di gemellaggio o di complementarietà, ma perché l’uomo in sé, dal suo isolamento, sembrava indifferente agli attacchi (nel 1961 o ’62 un gruppo di estremisti, feriti dal disprezzo che Montherlant manifestava per l’ideologia di moda, impedì con le sue grida la rappresentazione di una delle sue opere alla «Comédie Française») di certi nemici che invidiavano in lui quello che soltanto lui poteva avere, quella grazia superiore che testimonia non soltanto il talento, ma anche il talento di vivere al disopra del proprio tempo. Mi domando anche se non è questa la qualità essenziale di ogni grande spirito, la qualità che colloca certi artisti su un gradino più alto, da dove vedono meglio quello che succede nella prospettiva della loro altezza, concentrando così una conoscenza cui gli altri non hanno accesso, ma attirando anche l’odio dei loro contemporanei.

Non ricordo il motivo che mi spinse a scrivergli. Forse la lettura di un libro o di un brano su Les nouvelles littéraires, e neanche ricordo quello che gli dicevo in quella lettera, che senza dubbio gli piacque, perché mi rispose subito con queste righe:

La sua lettera mi ha emozionato. L’esilio morale, sempre ci ho vissuto, e credo che lo avrei io stesso cercato se non me l’avessero già dato; o, per dir meglio, me l’hanno dato perché io stesso l’ho cercato. L’esilio concreto, questo è diverso e molto più grave.
Non ho letto di lei che il suo Goncourt. A dodici anni scrissi un piccolo libro intitolato “De Augusto”. Il suo personaggio mi ha sempre ossessionato. Sono forse l’unico scrittore francese vivo impregnato di cultura romana. Questo le fa capire l’interesse che scatenò in me il suo libro, piuttosto nella parte romana che nelle aspirazioni metafisiche della seconda. Il suo compatriota Panait Istrati ha avuto questa espressione: “Uno stercorario di filosofie”. Altre speculazioni di questo genere non valgono molto di più, secondo me. Esse ci concedono, però, quell’esperienza per la quale ho smesso di manifestare il disprezzo in cui gli antichi tenevano la metafisica e nella quale io stesso la tenni durante la maggior parte della mia vita.
Grazie di nuovo per la sua lettera, eccetera.

Credo che tutto Montherlant si trova in queste linee. Come un grande pittore che riconosciamo subito di fronte a un semplice abbozzo: l’esilio morale di cui mi parlava era quello in cui viveva dopo la seconda guerra mondiale, adorato dal suo pubblico di sempre, ma attaccato e criticato dalla gentaglia che dominò nella Repubblica francese delle lettere durante più di due decenni e la cui caduta ha cominciato a manifestarsi negli ultimi dieci anni. La decomposizione del mito di Sartre dà la misura di questa caduta, e non solamente in Francia. È possibile che in una ventina d’anni d’ora innanzi si esaurisca il regno dei sofisti, con tutte le implicazioni che ciò suppone, e che farà sì che la parte migliore dell’opera di Montherlant ritorni alla luce, quella che infastidì i falsi profeti.

La sua lettera è del 27 luglio 1964, momento in cui l’attuale rinascita dei valori, di certe speranze che sembravano bruciate, di certi rigori spirituali e morali che formano la struttura dell’opera di Montherlant, non dava ancora segno di vita. Oggi anche l’esilio concreto, di cui parla nel primo paragrafo della sua lettera, e che allora sembrava senza fine, può trovare una soluzione.

Il finale della lettera sembra manifestare un certo sprezzo per le metafisiche, le quali, malgrado che i Romani non volessero praticarle, permettono ciò che si chiama un’esperienza. Lo stesso Montherlant, nell’ultima parte della sua vita, abbandonò tale spregio. Ed è un motivo di più per sentirlo vicino in questo momento, poco tempo dopo la sua tragica morte. Nei ricordi pubblicati sul numero di marzo di quest’anno di La nouvelle revue française, Montherlant faceva allusione alla sua passione di adolescente per Pascal, e trovava la seguente corrispondenza o sincronismo tra la Chiesa di Francia e la lingua: la Chiesa conosce una decadenza nel XVI secolo, un risorgimento nel XVII (il secolo di Pascal, di Descartes e dei grandi classici), una nuova caduta nel XVIII (il secolo della rivoluzione), mentre con l’Ottocento ritorna alle luci e al potere del XVII, e nel Novecento infine, secondo Montherlant, rientra in una crisi ora molto visibile. È curioso come le crisi e cadute della Chiesa di Francia coincidono colla decadenza della lingua, mentre il rinascere della religione coincide con la rinascita della letteratura francese. Pensiero più che audace e chiaroveggente, il quale rende conto dell’intimità strutturale che questo scrittore seppe sempre trovare tra i fondamenti religiosi della realtà umana.

Ma metafisica è anche la conclusione di quei ricordi. Dice alla fine: “Queste forti e deboli viventi (facendo allusione alla nonna e alla zia, n.d.r.) meritavano un mio omaggio, prima che fosse troppo tardi”. E più avanti: “Renderò omaggio a queste anime cristiane in un modo che non posso dire qui”. Ma in che modo? Un’orazione sulle loro tombe? Un ritorno così alla metafisica? Cioè un passo verso qualcosa di molto intimo e personale, che mi fa pensare a quella tremenda frase che Cardona dice a Cisneros nel suo Cardinale di Spagna: “Bisogna che le cose abbiano un senso. La vostra energia è qualcosa che già non ha nessun senso. È possibile che vediate crollare pezzi interi di ciò che vi prese tutta una vita per costruire. Non c’è più uscita per voi che verso il terribile”.

Queste parole sono state scritte dodici anni prima della morte dello scrittore. Il segreto metafisico che chiude la sua vita mai lo conosceremo. Soltanto qua e là, disseminate attraverso la sua opera, in frasi e pensieri, scopriremo piccole luci rivelatrici del suo mistero. Come i Romani, suoi modelli di sempre, Montherlant lottò, trionfò, fu vinto, conquistò un impero nelle lettere del secolo, aspettando qualche cosa, come i contemporanei di Ovidio e di Augusto, qualche cosa che, forse, gli fu rivelato o concesso prima di uscire di scena».

(Una lettera di Montherlant, Il Tempo, 15 ottobre 1972, p. 3)

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Vintilă Horia

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