La protesta degli studenti: sotto la tenda (niente)

Analizzando la condizione di molti contestatori non si può fare a meno di constatare alcune incongruità che risaltano

La protesta delle tende vista da Myrta Merlino su La7

Seguo con molta perplessità la cosiddetta “protesta delle tende”: la contestazione degli studenti accampati davanti alle sedi universitarie per protestare contro il caro affitti. Molti di essi hanno senz’altro le loro ragioni: il canone mensile di un posto letto è salito considerevolmente nel corso dell’ultimo anno, come del resto è salito quello di un pasto in trattoria, di un’apericena, di una serata non dico al ristorante ma in una modesta pizzeria con la tovaglia di carta da macellaio, di un chilo di pasta, persino di una bottiglietta di minerale, divenuta, anche in trattoria, più cara di un litro di benzina Sono problemi che coinvolgono tutti i lavoratori a reddito fisso, che non possono speculare sull’inflazione, e non solo i fuori sede. Analizzando però la condizione di molti contestatori non posso fare a meno di constatare alcune incongruità.
La prima è che molti fuori sede hanno scelto di essere tali pur avendo molte valide alternative a casa loro. Nel corso degli ultimi decenni l’università si è “licealizzata” e molte facoltà o, come si dice oggi, dipartimenti hanno aperto succursali nei centri minori, dove prima esistevano solo istituti di istruzione secondaria superiore. Ci sono, è vero, i casi di corsi di studio che non sono presenti in alcuni atenei (veterinaria, per esempio, c’è a Pisa ma non a Firenze), ma si tratta di eccezioni.
I motivi per cui un diciannovenne sceglie di trasferirsi lontano da casa per studiare, pur avendo valide alternative a pochi chilometri di distanza, possono essere i più vari: affrancarsi dai vincoli della famiglia, conoscere luoghi nuovi, assaporare una vita da bohème prima degli impegni lavorativi. Si tratta di aspirazioni comprensibili, della cui soddisfazione non può essere tuttavia considerato responsabile il governo in carica. In un reportage sugli studenti accampati, per esempio, ho letto lo sfogo di una ragazza che vive a Seregno e studia a Milano alla “scuola del fumetto” e non può permettersi una camera. Seregno è un paesone dell’hinterland milanese da cui si raggiunge il capoluogo in treno, con certe corse, in circa mezz’ora: meno del tempo necessario a spostarsi in auto da un quartiere all’altro di una città. Una studentessa universitaria di Bergamo si lamenta dei prezzi eccessivi di una camera a Bologna, dove ha scelto di studiare Scienze Politiche; ma con cinquanta minuti di autobus avrebbe potuto benissimo raggiungere Milano, dove non mancano certo corsi analoghi, e magari studiare durante il viaggio. Quando entrerà (come auspicabile) nel mondo del lavoro scoprirà che esistono migliaia di persone che ogni giorno si alzano presto e tornano a casa tardi perché l’ufficio non è dietro casa. E che cosa ha indotto un ventenne della provincia di Bari, che ora si lamenta per il caro affitti, ad andare a studiare a Firenze, come se non esistessero ottimi atenei anche in Puglia, o un palermitano a frequentare Scienze Politiche a Torino? Sono tutti di modesto livello i cattedratici del Sud? Se è così gli studenti dovrebbero protestare contro di loro, non contro i padroni di casa.
Beninteso, ciascuno è libero, in un regime democratico, di scegliere gli studi che preferisce, e anzi sono decisamente contrario all’istituzione del numero programmato, così come è stato realizzato: basti pensare all’odierna carenza di medici. Però alla libertà di scelta da parte degli studenti non può non corrispondere la libertà da parte dei proprietari di casa di chiedere affitti remunerativi, anche perché oggi un alloggio non si dà più come un tempo in locazione dopo avere dato un’imbiancata alle pareti e messo il salvavita all’impianto elettrico; il proprietario di casa coscienzioso (chi non lo è, lo fa a suo rischio e pericolo, sotto il profilo civile e penale), deve per mettere a norma gli impianti sobbarcarsi gli oneri di ristrutturazioni che spesso sopravanzano il valore stesso dell’immobile, per tacere di quelli che dovrà poi sostenere per ottemperare alla normativa green europea che prima o poi ci metterà tutti al verde.

È indubbio che sul caro prezzi influiscano anche altri fattori, per esempio il boom degli affitti brevi turistici, in sedi universitarie che sono spesso anche città d’arte, che allontana non solo gli studenti, ma i residenti, dai centri storici. In molti casi però il buon senso potrebbe consentire di contemperare interessi dei proprietari e dei locatari: visto che l’alta stagione turistica coincide col periodo delle vacanze, i fuori sede potrebbero lasciare libere le abitazioni nei mesi estivi o fra Natale e l’Epifania, usufruendo negli altri periodi di un canone meno oneroso. Un padrone di casa che non sia afflitto da una patologia avidità potrebbe essere rassicurato dal fatto di avere un reddito garantito nei mesi “morti” dell’anno, ritornando nella disponibilità dell’immobile nell’alta stagione. Mi ricordo, per esempio, di avere risieduto nell’agosto di svariati decenni fa nella Cité Universitaire parigina, proprio dirimpetto al Parc Montsouris: la Maison d’Italie metteva in affitto le camere rimaste vuote quando l’anno accademico era finito, e lo stesso facevano gli altri Collèges disseminati in quella grande area verde alla periferia della capitale francese.

I lavoratori, i veri  sofferenti

Tutto questo non significa che il problema del caro alloggi non sussista, e che non esistano proprietari di casa scorretti e inclini all’evasione fiscale: è giusto denunciarli. Ma a pensarci bene è un problema che tocca più i lavoratori che gli studenti. Quando si è poco più che adolescenti e si esce per la prima volta da casa, dividere la camera, alternarsi ai fornelli, tirar tardi davanti a una bottiglia sono cose gradevoli, che si ricorderanno con nostalgia anche in seguito. Il problema nascerà quando molti ex studenti del Mezzogiorno, finalmente laureati e magari vincitori di concorso, si troveranno a sopravvivere al Nord lontano da casa con stipendi, se va bene, di 1500 euro, in metropoli dove tutto è più caro. La vera emergenza abitativa risiede qui, anche perché il disagio rischia di protrarsi ben oltre i cinque o sei anni necessari per ottenere una laurea magistrale. Ma resta da vedere se sono gli affitti troppo alti o gli stipendi dei neoassunti, anche con lauree “forti”, come economia e commercio o ingegneria, vergognosamente bassi.
Detto questo, il problema del diritto allo studio per gli universitari sussiste senz’altro, ma dev’essere inquadrato in forme meno strumentali e demagogiche. L’articolo 34 della Costituzione prevede per “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi” il “diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi” e statuisce che tale diritto divenga effettivo “con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.” Non v’è dubbio che fra le provvidenze previste per gli universitari vi possano essere posti disponibili negli studentati o in alloggi gestiti nelle varie aziende per il diritto allo studio. È onesto aggiungere però che tale diritto debba essere assicurato solo ai “capaci e meritevoli”, endiadi che presuppone sia le capacità sia il merito: un genio che diserta le lezioni e offende i professori l’università se la deve fare a sue spese, e lo stesso vale per un giovane provvisto della migliore buona volontà, ma negato per lo studio. In altri termini, le case dello studente non devono diventare un paese dei balocchi per fuori corso: chi non è in regola con gli esami, dopo qualche prova d’appello, è giusto che lasci il posto ai nuovi arrivati. La Costituzione parla di diritto allo studio, non di diritto allo shottino, al cazzeggio, alla movida, e magari allo spinello. E nemmeno al campeggio, quando una protesta nata spontanea si trasforma, come sta avvenendo in questi giorni, in una polemica strumentale.

Protesta vittimista

Senza dubbio, molti degli studenti che montano le loro canadesi nel centro delle città sono in buona fede. Sono stati abituati dalla famiglia e dalla scuola ad avere tutto, dal cellulare ultimo modello agli esami “da remoto”, e non c’è da meravigliarsi se molti di loro confondono il diritto allo studio col diritto al turismo. Questo non toglie che la protesta, adottata ovviamente dall’opposizione per mettere in difficoltà il governo, sia prendendo una brutta piega. Più che un progetto culturale, scorgo dietro al movimento nato dallo sfogo spontaneo di una studentessa un misto di vittimismo proto sessantottino (“ma che colpa abbiamo noi”, cantavano i Rokes nel 1966, nel pieno di quei favolosi anni Sessanta in cui l’Italia non era mai stata così bene), e di neostatalismo: non a caso c’è chi ha invocato il ritorno a quella normativa sull’equo canone che fu uno dei frutti avvelenati dei governi della solidarietà nazionale. Detto in altri termini: sotto la tenda (nel migliore dei casi) niente.

@barbadilloit

Enrico Nistri

Enrico Nistri su Barbadillo.it

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