Il punto. Le lacune della preside di Firenze e il ravvedimento di Gramsci

Credo che la politica dovrebbe rimanere fuori dalle sale di presidenza e che la Costituzione tuteli la libertà d’insegnamento dei docenti, non il diritto dei dirigenti scolastici di utilizzare la carta intestata (sia pure elettronica) del ministero per intervenire su questioni politiche più o meno contingenti

Gramsci pop

Non entro nel merito della circolare della dirigente scolastica del liceo Scientifico Leonardo da Vinci di Firenze, che tanta eco ha suscitato nei giorni scorsi, anche per un intervento critico del ministro Valditara, persona colta e rispettabile, studioso del diritto e della cultura latina e contemporaneo forse più di Marco Tullio Cicerone che di Salvini o della Meloni. Credo però che la politica dovrebbe rimanere fuori dalle sale di presidenza e che la Costituzione tuteli la libertà d’insegnamento dei docenti, non il diritto dei dirigenti scolastici di utilizzare la carta intestata (sia pure elettronica) del ministero per intervenire su questioni politiche più o meno contingenti. Non per questo ritengo giusto fare della dottoressa Savino una vittima o peggio una martire, né credo che Valditara avesse tale intenzione. 

C’è tuttavia un dettaglio della lettera in questione che mi ha colpito, perché mostra come l’autrice conosca poco proprio l’autore da lei citato come esempio, ovvero Antonio Gramsci. Nella sua lettera la dottoressa Savino parla di lui come “un grande italiano che i fascisti rinchiusero in un carcere fino alla morte, impauriti come conigli dalla forza delle sue idee”.

Si può discutere se Gramsci sia stato un grande italiano, e se i fascisti avessero una conigliesca paura delle sue idee, ma un fatto è certo: il pensatore sardo non fu tenuto chiuso in carcere per tutta la vita. Condannato nel 1928 a oltre vent’anni di carcere, Gramsci, pur rimanendo in stato di detenzione, fu ricoverato nel 1933 nella clinica del dottor Cusumano a Formia e l’anno dopo trasferito, in libertà condizionata, alla clinica Quisisana di Roma, dove morì nel 1937 per una emorragia cerebrale. La libertà condizionata fu concessa al pensatore non su pressione dell’opinione pubblica internazionale, che Gramsci non sollecitò, consapevole che una campagna di stampa avrebbe rischiato di sortire l’effetto opposto, né in seguito a un indulto, ma perché Gramsci stesso la richiese appellandosi all’articolo 176 del Codice Penale, che prevedeva la liberazione del detenuto in caso di suo ravvedimento. Un articolo dello storico Dario Biocca (Il ravvedimento di Gramsci), uscito su “Repubblica” il 25 febbraio 2012 e facilmente reperibile anche su Internet, ha chiarito questo aspetto della vicenda umana dell’intellettuale rimasto a lungo nell’ombra.

Questo non toglie nulla all’inumanità del trattamento riservato a Gramsci dal fascismo, né sminuisce la figura di Gramsci, che minato dalla malattia si dichiarò “ravveduto” per potersi curare. Induce semmai a qualche riserva sulla effettiva conoscenza da parte della preside del “grande italiano” proposto come esempio ai giovani. Eppure la prima cosa che i professori dovrebbero insegnare agli studenti sarebbe che prima di esprimere giudizi su qualcosa e qualcuno è doveroso conoscerli a fondo.

@barbadilloit

Enrico Nistri

Enrico Nistri su Barbadillo.it

Exit mobile version