“L’ombra di Caravaggio”: se il ‘pastiche’ diventa un pasticcio

Il film di Michele Placido non riesce a focalizzare l'artista, preferendogli un rocambolesco ed assatanato puttaniere

L'ombra di Caravaggio, film di Michele Placido

L’ombra di Caravaggio, film di Michele Placido

Illude e delude ‘L’ombra di Caravaggio’, film di Michele Placido tanto reclamizzato e promosso negli ultimi tre mesi. Illude fuori dalla sala con quel titolo che promette misteri e colpi di scena, che poi non ci saranno; delude nella sala per la sua narrazione didascalica, che nemmeno le guide museali più pedanti sarebbero capaci di imbastire. A ciò si aggiunga la recitazione piuttosto andante di tutti gli attori (regista compreso), per di più  compromessa dalla scelta (infelice) di fondere gergo moderno e linguaggio secentesco (del tipo: “Se stava a fá ‘ngroppá quando due armigeri la sottrassero per scudisciarla”). Le numerose scene goderecce, poi, ben poco hanno a che vedere con il vissuto effettivo del protagonista (familiarmente chiamato “a’ Michelá!”), la cui irrequietezza non si può spiegare solo in chiave erotica. Il dato più importante, però, è che, nella sua impostazione molto ”wikipediana’, il film non riesce a focalizzare l’artista, preferendogli un rocambolesco ed assatanato puttaniere, e liquida le novità della tecnica pittorica del Caravaggio in dialoghi dal sapore fastidiosamente didascalico. Né rende più interessante il racconto filmico la presenza di personaggi storicamente famosi quali san Filippo Neri, Giordano Bruno e Artemisia Gentileschi, in camei di dubbio inserimento.

Il primo, infatti, è presentato come un rassegnato ed inespressivo gestore di una mensa dei poveri, dispensatore di consigli scontati quanto inascoltati. Il secondo è un ingabbiato pappagallo, che, col suo dialetto napoletano fin troppo sciolto e marcato, nello spettatore suscita riso e non riflessione sul dramma di Giordano Bruno, pensatore fuori corrente. La terza non si capisce perché sia presentata come una ‘ragazza dall’orecchino di perla’ alla Vermeer (con la fascia celeste in testa ed il pendulo gioiello in bell’evidenza), che, da alunna secchiona ma innamorata del maestro, ne ribadisce la grandezza anche sotto pesante minaccia dell’inquisitore.

Dati questi presupposti, il finale non poteva che essere scontato e banale: l’artista è ucciso dall’inquisitore ‘medesimo, in persona’, per dirla alla Totò. Al quale inquisitore la definizione di ‘ombra’ (ebbene sì, a lui si riferisce il sostantivo del titolo non alla pittura del Caravaggio …) suona come un nomignolo per indicare una spia più che un giustiziere. Infine, a rendere un pasticcio quel che voleva essere un ‘pastiche’ cineletterario, contribuiscono alcune scene da tableaux vivants, che sembrano sortite dallo spettacolo allestito a Napoli nel 2017 presso il Museo Diocesano ma che, malgrado la splendida fotografia di Michele d’attanasio, nel racconto filmico, risultano solo un espediente puramente didattico. E nulla più.

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Nicola Fiorino Tucci

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