Tenuto assieme da una cronologia liturgica, quella pasquale per l’appunto che ne cadenza anche simbolicamente i capitoli, il romanzo conferma più d’una impostazione astorica – in effetti sono presenti tutti i protagonisti dell’epoca – una sorta di ribaltamento di prospettiva, relegando sullo sfondo l’ufficialità dell’alta politica in favore di uno sguardo microcosmico puntato su un brulichio umano fatto di pettegolezzi di cortigiani e militari, poi allargato come un ventaglio a vicende di nobili e popolani, gesuiti interessati, convinti monarchici e doppiogiochisti, traditori, idealisti, avventurieri, nostalgici del terrore, cospiratori e reazionari, felloni e giovani ardimentosi, tutti posti davanti al dilemma della inevitabile scelta di parte, tra re imbelle e imperatore di ritorno, il tutto in un contesto infido, stato generale di confusione, incertezza e fibrillazione. Privo di un vero e proprio protagonista, o forse con primattore fantasma, da chi evocato e da chi temuto, un astratto Napoleone del quale aleggia l’incombente ritorno ma che resta metafisicamente sullo sfondo della narrazione, il libro ha però una sua guida romantica: il giovanissimo pittore Théodore Géricault, futuro autore del dipinto La zattera della Medusa, inquieto ammiratore di Caravaggio e del suo stile teatrale applicato a figure plebee, qui sottotenente delle truppe reali dirette a nord, in un clima d’incertezza riguardo alle reali intenzioni del monarca e del suo codazzo di impomatati dignitari: ritirata strategica dalla pericolosa Parigi in attesa di combattere tra compatriotti in campo aperto, oppure fuga ed esilio ed altre meschinità sottaciute?
Dalle convulse manovre di palazzo e di caserma iniziali segue un rocambolesco muoversi della processione militare, al netto di uno stile diversissimo e del contesto storico anteriore, il testo ha qualche similitudine con la Trilogia del Nord di Louis-Ferdinand Céline: medesima paranoia diffusa, fuga trafelata per salvare la pelle (e i privilegi, chiusi in barilotti d’oro su eleganti carrozze al trotto), identica angoscia collettiva di una carovana allo sbando, solo che qui non ci sono bombe, non c’è guerra reale, sembra essere tutta una questione di presentimento, d’inquieta aspettazione, com’è della lepre che ha fiutato il cacciatore, un ipotetico nemico alle spalle, il fiato sul collo. Vero o immaginario? Aragon riesce abilmente ad eludere il quesito, generando di fatto una dinamica letteraria immaginaria, benché storicamente verosimile, degna di Cervantes: i due contrapposti eserciti s’incontreranno solo una volta nelle torbiere del nord, per sbaglio o per capriccio dello scrittore, ma non vi sarà scontro a causa di un moschettiere Reale disarcionato accidentalmente dal suo cavallo e trascinato per chilometri dalla bestia, fino a perdere i sensi e quasi la vita. Cavalleria, per l’appunto come vocazione etica, che impone alle parti una tregua fraterna al cospetto del moribondo; uno dei più appassionati e visionari passaggi del libro, iperrealismo violento, le parole stesse che paiono al galoppo, la ribellione dell’animale imbizzarrito confluita nel soliloquio vaneggiante del ferito. D’altronde Aragon ha penna felice nelle descrizioni, siano queste di divise e armamenti, eleganti minuzie d’abito e suppellettili o di scene paesaggistiche, splendidamente dipinte ad esempio nelle fradicie e terre del nordest, lande desolate, umide propaggini laddove in villaggi ancora medievali, tra boschi torba e carbone, in una pece atmosferica quasi sironiana, le diligenze s’impantanano ed i bianchi gigli dei vessilli borbonici s’imbrattano senza rimedio.
A ben pensarci, al di là dello spettro d’un effimero, residuale, Napoleone evocato dal popolo sempre incarognito contro i potenti di turno, e delle pingui mollezze d’un re amato soprattutto da potenze straniere e dai religiosi, il vero protagonista de La settimana santa potrebbe essere paradossalmente proprio il cavallo, per esteso la categoria equestre vieppiù ipotizzata in battaglia, ma anche in contesti meno nobili al carretto agricolo, tanto cara al pittore, ed ora per l’appunto cavaliere del regno borbonico, Géricault. Quella che per l’artista fu un’ossessione estetica, ben resa nell’incompreso quadro del 1814, tardo neoclassico più volte citato nel romanzo, Cuirassier blessé quittant le feu, si fa nel libro sublime epica al crepuscolo, fisicità ancestrale, simbiosi tra uomo e animale; a tal proposito va segnalato un passaggio memorabile, ambientato nella fucina di un maniscalco di provincia, laddove Aragon ambienta uno dei vertici lirici del volume: ferro, fuoco ed acqua, chiodi incudine e mazza, mirabile descrizione di ferratura, tanto che pare d’essere lì. Cavalli disperatamente cercati da signorotti parigini per scappare dalla capitale su ridicoli calessini, bomboniere inadeguate alle paludose terre di campagna; cavalli da fatica a capo chino nella bruma, infiocchettati da parata, fedeli o testardamente ribelli, graziati dalla guerra in fieri, cavalli uccisi dal proprio padrone, con un angosciante atto di pietà: “Non hai mai ucciso un cavallo, tu? Capisci, è il tuo cavallo! Era un magnifico sauro, un cavallo dirazza, un inglese. Ma lungo la strada era sprofondato nel fango e si era rotto una gamba… e addio! Così aveva dovuto ucciderlo. Si fa presto a dirlo, ma quando devi prendere la pistola e avvicinarti alla bestia che ti guarda con occhi fiduciosi…”.