Giornale di Bordo. Draghi e l’Italia dal panfilo Britannia alla zattera della Medusa

Viviamo con un Governo sovranazionale che – come il Palazzo di pasoliniana memoria - da più di un decennio condiziona la nostra democrazia, nei diktat ortografici come nelle scelte sanitarie

La zattera della Medusa

Seguo senza grande passione le sorti del governo Draghi, dolorosamente convinto che la sfiducia a un primo ministro potrà provocare la crisi di un governo, ma non del Governo. Un Governo sovranazionale che – come il Palazzo di pasoliniana memoria – da più di un decennio condiziona la nostra democrazia, nei diktat ortografici come nelle scelte sanitarie. Quello che accadde nel 2011 al governo Berlusconi, e ancora di più quanto è capitato nell’agosto del 2019 al governo giallo-verde, al di là degli errori innegabili dei partiti che lo sostenevano, è sotto questo profilo molto istruttivo.

L’Italia è, da un punto di vista giuridico-formale, una repubblica parlamentare. Prova ne sia che un vicepresidente del Senato guadagna, sia pur di poco, più di un ministro e che, se per ipotesi dovessero passare dalla stessa porta, la precedenza secondo il cerimoniale spetterebbe al presidente della Repubblica, dopo di lui al presidente del Senato, poi al presidente della Camera e solo per ultimo al capo del governo, che è solo la quarta carica dello Stato. Ma in realtà il Parlamento è stato esautorato delle sue prerogative non solo perché gli ultimi presidenti del Consiglio sono in senso tecnico “extraparlamentari” e perché la decretazione a Dpcm e decreti legge col pretesto dell’emergenza ha di fatto aggirato il dibattito in aula, ma in quanto la discussione su temi di vitale importanza come le sanzioni alla Russia e l’invio di armi all’Ucraina non è passata per il Parlamento, ma anzi deputati e senatori sono stati precettati in maniera umiliante, come scolaretti riuniti in aula magna per l’arrivo di un ospite importante, ad ascoltare il videocollegamento con Zelenski. Se a questo si aggiungono le storiche invasioni di campo della Consulta, che non si limita a sentenziare se una legge è costituzionale o no, ma ne impone la riscrittura, e il ridimensionamento dell’immunità parlamentare, che pone la politica in balia della magistratura, il quadro credo si possa considerare completo. Montesquieu non abita più qui.

Proprio per questo in un primo tempo avevo salutato con moderato favore l’avvento del governo Draghi. Non solo perché spostava al centro un asse politico squilibrato a sinistra dall’agosto del 2019, ma perché come presidente della Banca Centrale Europea il nuovo premier aveva quanto meno attenuato le conseguenze della crisi finanziaria italiana. Era stato, è vero, anche lui un uomo del panfilo Britannia, in cui col pretesto del deficit pubblico si svendettero le nostre migliori aziende di Stato, ma occorre riconoscere che si trovava in buona compagnia; ed è vero che Cossiga l’aveva definito un “vile affarista”, ma il “picconatore”, si sa, era un po’ ciclotimico. All’egemonia europea della Germania e dei Paesi “frugali”, preoccupati d’imporci una patrimoniale per evitare il default, immaginavo che avrebbe potuto fare da “scudo”, lasciando il ruolo della “spada” a Salvini – che però non è Alberto da Giussano – o alla Meloni, che però, per sua fortuna, non è Giovanna d’Arco.

Una prima delusione provenne dalla scelta dei ministri. Che, soprattutto in Forza Italia, dalla Gelmini a Brunetta, erano l’espressione di quanto di peggio il partito di Berlusconi, e con esso il centrodestra, aveva saputo esprimere dal 2008 in poi. Ma fu la scelta liberticida sul green pass e sull’obbligo vaccinale a farmi capire che in realtà si trattava di un governo di sinistra, dalla partecipazione al quale un partito come la Lega non poteva che ritrarre, come poi effettivamente è avvenuto, una perdita di consensi.

Lo scoppio del conflitto in Ucraina non ha fatto che confermare questa opinione. Nessuno avrebbe preteso che Draghi assumesse un atteggiamento pilatesco fra l’aggressore e l’aggredito; però me lo fece definitivamente cadere la scelta di promettere a Zelenski, che aveva arringato in videoconferenza i nostri parlamentari, più di quanto questi avesse richiesto con un discorso inusitatamente cauto. Per tacere della stravagante opzione fra la pace e il condizionatore proposta per avallare le sue scelte, come se le conseguenze delle (auto)sanzioni imposte alla Russia, che comunque avrebbe trovato altrove gli acquirenti dei suoi idrocarburi, si sarebbero potute ridurre a qualche grado in più o in meno sulle tacche del termostato.

Allora ebbi la definitiva percezione di un tecnico senz’altro esperto nell’ambito dell’economia artificiale – quella, per intendersi, in cui si inventa la moneta con un clic – ma digiuno dell’economia reale, in cui senza la soddisfazione del fabbisogno energetico non si produce l’acciaio, non si ricicla il vetro, e neppure si fanno sopravvivere gli anziani nelle case di riposto. E mi fece tenerezza il povero Berlusconi, smentito per avere assunto posizioni favorevoli alla pace come un nonno rincoglionito che si fa cenare in cucina quando ci sono ospiti di riguardo, dalle stesse persone che aveva tirato su lui e cui negli anni d’oro avrebbe avuto ottimi argomenti per tenere la bocca chiusa.

Per questo le sorti del governo Draghi mi interessano sino a un certo punto. Che cada o non cada, che muti o meno l’inquilino di questo o quel dicastero, non credo che cambierà molto. Si vada o no a elezioni anticipate, credo che in futuro potrà cambiare – per qualche tempo – il governo italiano, ma non il Governo: quello che non in Italia ma in tutto il mondo euro-occidentale all’orgoglio dell’identità sta sostituendo nel catalogo dei valori la fluidità e la compatibilità, all’appartenenza la resilienza, che ha fatto della moneta una mera espressione magnetica, che ci sta educando con il prestito al consumo a sostituire la proprietà con il leasing, e lavora, a quasi un secolo dagli infelici tentativi dei totalitarismi ottocenteschi, al progetto di un uomo nuovo privo di appartenenza ormonale o nazionale, senza identità culturale né proprietà individuale, senza differenze sessuali né desinenze grammaticali. In questa prospettiva, poco importa che resti al timone l’uomo del panfilo Britannia. All’orizzonte continuo a intravedere la zattera della Medusa.

p.s. qualcuno, dopo la lettura di questo articolo, mi accuserà di essere complottista. Può darsi che sia vero; però la colpa non è mia, ma di chi complotta. In genere, come ho spiegato in questa occasione, pensavo che la mia adolescenza cresciuta a ribollita e abate Barruel mi avesse vaccinato da questo rischio. Non posso fare a meno però di pormi qualche interrogativo. Oggi, se qualcuno mi dice che prima o poi ci verrà imposto di farci inserire sotto la cute un microchip, sono incline a considerarlo un pazzo. Ma due anni e mezzo fa, se qualcuno mi avesse profetizzato che gli italiani sarebbero stati consegnati in casa per mesi, poi obbligati a scegliere fra l’inoculazione di un siero di dubbia utilità e di oscura provenienza e la perdita del lavoro e l’isolamento sociale, che un capo di governo liberale in Canada avrebbe congelato i conti correnti di chi aveva solidarizzato con la protesta dei camionisti contro il green pass,  lo avrei considerato lo stesso un folle. Invece sono stato obbligato a riconoscere che si trattava solo di un profeta: il pazzo ero io.

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Enrico Nistri

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