Giornale di Bordo. Da Hanoi a Kiev, dove può condurre una diplomazia parallela

Dai prossimi viaggi di Salvini a Gianna Preda, Enrico Mattei e tant'altro: tra realtà e missioni possibili/impossibili

Il ruolo della diplomazia

Fioritura di ironie (fra gli avversari) e perplessità (all’interno del centrodestra, e persino della Lega) sul progetto di Salvini di recarsi a Mosca per promuovere un dialogo parallelo volto all’avviamento di autentiche trattative di pace per la guerra in Ucraina.

Naturalmente, non me ne meraviglio, non solo perché Salvini è un bersaglio facile, ma perché le diplomazie parallele avviate da leader politici privi di una legittimazione istituzionale si prestano a facili ironie. Quand’ero ancora un ragazzino, ricordo gli sberleffi con cui l’allora direttore della “Nazione”, Enrico Mattei, da non confondersi con l’omonimo manager di Stato, commentò la missione per la pace nel Vietnam promossa da Giorgio La Pira, che si era recato ad Hanoi con un suo discepolo, l’allora giovane assistente universitario di meccanica razionale Mario Primicerio, divenuto in seguito sindaco di Firenze dal 1995 al 1999. I colloqui non ebbero successo, anche per l’intransigenza dei “falchi” dell’amministrazione statunitense, pure allora democratica, e a gettare il sale sulle ferite fu l’intervista “rubata” da Gianna Preda, nel salotto di casa Fanfani, allo stesso La Pira, intervista che costrinse alle dimissioni l’allora ministro degli Esteri.

Fare dell’ironia sul profetismo savonaroliano del “sindaco santo”, visto da molti come “un pesciolino rosso nell’acquasantiera”, era piuttosto facile; resta il fatto che qualche anno dopo non il pacifismo di La Pira ma il realismo politico di Kissinger, con un’amministrazione repubblicana, avrebbe indotto gli Stati Uniti a un accordo col Vietnam del Sud non migliore di quello prospettato a suo tempo da Primicerio, dopo qualche anno e molte perdite di vite umane in più.

Il dialogo Salvini-Parolin

Ora, la situazione è molto diversa e molti vedranno nell’iniziativa del segretario leghista un’iniziativa dettata più che da intenti umanitari dal desiderio di compiacere la “pancia” di una base elettorale preoccupata per la crisi economica indotta dal conflitto, o semplicemente di recuperare una visibilità politica in parte appannata.  Ma il fatto che Salvini nel compiere la sua mossa abbia cercato un dialogo col segretario di Stato Parolin dovrebbe indurre a riflettere. Una tale scelta del leader leghista, tutt’altro che tenero nei confronti dei vertici vaticani del dopo-Ratzinger (qualcuno ricorderà le sue polemiche col “cardinale elettricista” che riattaccava la corrente elettrica tagliata ai palazzi occupati abusivamente) potrebbe indurre a pensare a uno sparigliamento degli attuali schieramenti politici. All’alleanza dei “responsabili” atlantisti, propugnata da quanti auspicano una larga maggioranza fra Pd e Fratelli d’Italia e per fortuna respinta dalla Meloni, potrebbe contrapporsi un partito della pace in cui pulsioni irenistiche, interessi economici e considerazioni geopolitiche potrebbero o dovrebbero convivere.

Non è un mistero per nessuno che il protrarsi della guerra in Ucraina condurrebbe a una catastrofe umanitaria, ma al tempo stesso a un disastro socioeconomico per l’Italia: la nazione più a rischio (dopo la Germania) per gli approvvigionamenti energetici e in assoluto più vulnerabile a una nuova e incontrollabile ondata di migranti economici. Oltre tutto, il blocco delle esportazioni di cereali da Kiev potrebbe condurre, flussi migratori a parte, alla destabilizzazione di quei paesi dell’Africa con le cui forniture di gas speriamo di compensare, almeno in parte, l’eventuale  taglio delle importazioni dalla Russia.

Salvini ha capito meglio di altri politici del centrodestra, Berlusconi a parte, l’esigenza di fare tutto il possibile per porre termine a un conflitto fratricida fra due nazioni europee e cristiane, assurdo proprio mentre i veri pericoli per l’Occidente sono costituiti dal fondamentalismo islamico e dall’imperialismo cinese. E ha deciso di metterci la faccia, a costo di suscitare le facili ironie da parte degli eredi morali di un partito vissuto per mezzo secolo grazie all’“oro di Mosca”. Non oso sperare che ci riuscirà. Forse non lo lasceranno nemmeno partire. Se ci riuscisse, però, dimostrerebbe (con buona pace dei sondaggi) di essere qualcosa di più di un politico: un uomo di Stato.

Enrico Mattei, giornalista de La Nazione e il Tempo

p.s. qualche informazione per gli under 60, e anche per quanti non ricordano comunque certi personaggi e certi ambienti del mondo giornalistico e politico italiano. Enrico Mattei era un galantuomo e un grande giornalista. Fra l’altro fu l’inventore del cosiddetto “pastone” politico, l’articolessa che raccoglieva ogni giorno (twitter doveva ancora arrivare) dichiarazioni dei vai esponenti politici. Un po’ palloso, ma all’epoca utilissimo. Da direttore della “Nazione” contribuì al risorgimento di Firenze dopo l’Alluvione del 1966, con i suoi sferzanti editoriali in cui costrinse i politici romani a inviare mezzi e risorse per salvare la città da un disastro in un primo momento sottovalutato. Anticomunista e antisocialista convinto, fu “dimissionato” dal quotidiano fiorentino per la sua opposizione al Psi, che andava contro gli interessi della proprietà, e sostituito dal più malleabile Domenico Bartoli. Collaborò a lungo con il “Tempo” quotidiano e nel 1976 fu tentato di aderire alla Costituente della Destra, ma se ne ritrasse quando vide che sulla carta intestata c’era sempre la fiammella del vecchio Msi.

Mario Primicerio

Mario Primicerio, dopo l’infelice visita ad Hanoi e la caduta politica di La Pira, che non fu ricandidato in Comune, proseguì nella carriera universitaria. Nel 1995, quando il Pds, dopo la batosta alle politiche dell’anno prima, per vincere anche in Toscana si convinse della necessità di allargare i propri consensi al voto cattolico, candidò con successo lui, allievo di La Pira, come sindaco di Firenze, mentre candidava Michele Gesualdi, allievo prediletto di don Milani, alla Provincia. Quattro anni dopo, quando l’ex Pci capì che i voti per vincere li aveva comunque, non lo ricandidò e candidò al suo posto Domenici, che forse invece avrebbe preferito fare il parlamentare. Finì la sua carriera politica come “presidente dello Stato libero dei Renai”, una riserva naturale realizzata, con una felice scelta ecologica, dai Comuni rossi della Piana. Quando l’incontrai gli dissi per scherzo che da sindaco a capo di Stato aveva fatto una bella carriera. Lui, cosa rara, per lui che si era meritato per il suo aspetto un po’ triste il soprannome di “cimiterio”, sorrise.

Gianna Preda

Gianna Preda in realtà si chiamava Maria Giovanna Pazzagli, coniugata con un avvocato e ufficiale della Milizia di nome Amedeo Predassi. Fu una brillante giornalista e dopo aver collaborato a varie testate fra cui “Epoca” e “Il Giornale d’Italia” divenne redattrice, redattore capo e vicedirettore del “Borghese”. Lo pseudonimo Preda non fu inventato da Leo Longanesi, come si legge su wikipedia, ma fu dovuto a un errore del proto della tipografia, che decifrò male la firma, ed ebbe subito successo. Su posizioni inizialmente liberal-malagodiane, nel 1972 sposò le posizioni della Destra Nazionale, salvo uscire dal partito perché non ne condivideva la scelta antidivorzista.

Morì nel 1981 ad appena sessant’anni, vittima di un male incurabile. Uscì postuma la sua autobiografia, Fiori per io, che fu recensita con simpatia anche a sinistra, in un’epoca in cui le contrapposizioni ideologiche del decenni precedente si andavano levigando. Il successo, come il perito settore, arriva a volte troppo tardi.

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Enrico Nistri

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