Dal futurismo al punk dadaismo secondo Davide Fent

Il nuovo saggio dello studioso di avanguardie che spiega a Barbadillo: "Si arrivò a una rottura tra futuristi e dadaisti, ma numerosi furono gli elementi comuni e le occasioni di scambio"

L’atto di nascita del futurismo ha la data del 20 febbraio 1909, con la pubblicazione del “manifesto” su Le Figaro. E’ un “redazionale”, cioè un articolo/inserzione. Appare in prima pagina: Marinetti può permettersela.  Gli undici punti programmatici del “manifesto”, inneggianti al superamento del languore romantico e delle idee passatiste, sono preceduti da un editoriale col racconto di un incidente avvenuto a Marinetti, con la sua Isotta Fraschini, episodio all’origine dell’idea del movimento. “Il futurismo – scrive Marinetti – fonda la sua visione del mondo sul completo rinnovamento della sensibilità umana avvenuto per effetto delle grandi scoperte scientifiche. Addio all’uomo dell’800: il telefono, l’automobile, il cinema, l’aeroplano hanno trasformato un nuovo modo di sentire, l’uomo si proietta nel futuro”.
Roba di oltre un secolo fa? Ma anche nell’odierna quotidianità c’è futurismo: la moneta da 20 centesimi di euro riproduce un’opera di Umberto Boccioni del 1913, “Forme uniche della continuità dello spazio”. C’è futurismo anche negli sms, usando simboli, sintesi grafica e numeri, parole allungate, parole in libertà. C’è più che un semplice rimando al futurismo in fatti di cronaca: ottobre 2007, la fontana di Trevi, colorata di rosso nell’ottobre per protestare contro la Festa del Cinema di Roma e le palline fatte rotolare dalla scalinata di Trinità dei Monti; gennaio 2008, per sensibilizzare sui problemi della capitale,  un’analoga provocazione dal gusto tipicamente futurista. Ne è ideatore Graziano Cecchini.
Davide Fent, autore di Dal futurismo al punk dadaismo. Stasera si dorme a Trieste o in paradiso con gli eroi (Youcanprint, Lecce, pp. 258, euro 20, www.youcanprint.it) è di Como. Dal monumento dedicato dalla sua città ai caduti, Fent trae il sottotitolo del libro, intreccio del ricordo dei seicentomila morti italiani della Grande Guerra con quello dei trecento morti spartani delle Termopili.
Signor Fent, quando nasce la sua passione per il futurismo?
“Nel 1986, preparando l’esame di maturità. Nasce per curiosità dispettosa verso la contraddizione contenuta nei testi: penso a quello di Giulio Carlo Argan in primis”.
Testo che…
“… Da un lato riporta la novità del Futurismo, dall’altro lo liquida, perché vicino al fascismo”.
Giacomo Balla è stato per lei il passo successivo della sua “curiosità dispettosa”?
“Come protagonista della mostra ‘Dal primo autoritratto alle ultime rose’ alla galleria Russo di Roma. Mostra che nello spazio di poche sale raccontava un percorso di cinquant’anni. L’ incipit è folgorante, col primo autoritratto conosciuto di Balla (1894), un piccolo olio di eccezionale importanza storica, che si segnala per utilizzare come supporto il retro di un ritratto fotografico dell’artista bambino. Col risultato di un inaspettato gioco di specchi tra i due versi del dipinto. Poi c’è stata l’apertura al pubblico di Casa Balla, residenza di famiglia in via Oslavia 39b, diventata museo con un progetto del Maxxi a Roma”.
Davide Fent
Lei è autore anche di Finché morte non ci separi, romanzo ambientato dopo la Grande Guerra, nella quale erano morti Boccioni e Sant’ Elia.
“L’astratto diventa racconto, intessuto da piccole parti di ferro, ritrovamenti di frammenti bellici durante le passeggiate dell’artista sui monti di Asiago. L’objet re-trouvé ha una collocazione e un fine nella composizione accanto al lavoro di costruzione di un materiale leggero, che rappresenta uno spazio silenzioso, su cui si può trascrivere un pensiero. Il drammatico reperto di guerra fa da contrappunto narrativo al silenzio. Ma – come ritrovamenti di testimonianze di vita minime – gli oggetti, con la loro forza familiare ed evocativa divengono reliquie”.
Qual è il legame tra futurismo e cucina? 
“Mi ispiro ai libri di un amico, Guido Andrea Pautasso, grande critico d’arte, saggista, organizzatore di mostre e studioso di futurismo. Il suo lungo lavoro di ricerca nasce con l’intenzione di riportare alla luce le vicende storiche legate alla cucina futurista e racconta la rivoluzione messa in atto dai futuristi in cucina, con un percorso che dal 1913 – quando il cuoco Jules Maincave scrisse il primo Manifesto della cucina futurista – al 1944 della scomparsa di Filippo Tommaso Marinetti”.
Che cosa fanno futuristi in cucina?
“Questo cammino – ricette bizzarre, aero-banchetti, poesie strampalate, ristoranti insoliti – rivela come la fusione tra l’arte e la vita professata da Marinetti trovasse uno dei momenti più alti d’espressività nella gastronomia. Del resto il capo del futurismo sosteneva che, per agire con arte, con arte si dovesse mangiare. La gastronomia doveva farsi arte e rispettare l’armonia e i colori nella mise en place”.
E il cuoco?
“Il cuoco doveva diventare artista, magari osando accostamenti impensati, come sosteneva Carlo Carrà scrivendo che la pittura dovesse essere fatta da suoni, rumori, odori. Col futurismo il gesto artistico si fa prassi. Ciò che pareva provocazione – abbattere i gusti borghesi a tavola – è oggi una delle basi fondamentali della gastronomia”.
La prefazione del suo libro è di Roberto Floreani.
“Floreani è un grande artista e grande studioso di Futurismo. Lo ringrazio per la condivisione e la collaborazione, nonché per il supporto personale nella realizzazione di questo scritto”.
Floreani scrive che, trattando futurismo e dadaismo, lei “mischia…
“… In modo anarchico argomenti per molti aspetti inconciliabili: nazionalista e apolide, interventista e neutralista, organizzato e anarchico, costruttivo e nichilista, programmatico e avventuristico”.
Come concilia l’inconciliabile?
“Analogie e divergenze tra i due movimenti artistici come futurismo e dadaismo sono state indagate in una grande mostra alla Casa del Mantegna, a Mantova nel 2009, che ha rievocato un’intensa pagina di storia e di scambio attraverso dipinti, opere di grafica, fotografie e riviste. Futurismo e dadaismo a confronto in una mostra, che – a cent’anni dalla pubblicazione del celebre Manifesto e a settantasei dall’Esposizione futurista di Palazzo Ducale – ha indagato i due movimenti, tra analogie e divergenze. Soprattutto le ultime, dato che futurismo e dada intrapresero strade diverse”.
Ovvero?
“Dada, ancor più drasticamente, si poneva in contrasto con la società e con le tradizioni, fino a voler fare tabula rasa di tutte le regole che avevano codificato la creazione artistica. Si arrivò a una rottura tra futuristi e dadaisti, ma numerosi furono gli elementi comuni e le occasioni di scambio: lo spirito dissacrante, le serate provocatorie e irriverenti, la volontà di ‘rivoluzione tipografica’, l’uso massiccio dei mezzi di comunicazione e delle riviste, la commistione tra generi tradizionalmente separati”.
Sì, ma il dadaismo è pacifista, il futurismo è combattentista…
“Certo, Marinetti partecipa alle guerre. Nel 1935 va volontario in Africa orientale; di ritorno, nel 1936, comincia una lunga serie di studi e sperimentazioni sulle parole in libertà. A luglio 1942 riparte per il fronte, stavolta nella campagna di Russia. Il suo stato di salute all’arrivo del rigido autunno si aggrava ulteriormente e viene rimpatriato. Muore il 2 dicembre 1944 a Bellagio sul Lago di Como, mentre dimorava in un albergo in attesa di ricovero in una clinica svizzera; quella stessa alba aveva composto i suoi ultimi versi”.
Chi sintetizza meglio il ruolo di Marinetti?
“Ezra Pound: “Marinetti e il futurismo hanno dato un grande impulso a tutta la letteratura europea. Il movimento al quale Joyce, Eliot, io stesso e altri abbiamo dato origine a Londra non sarebbe esistito senza il futurismo”.

Silvio Magnozzi

Silvio Magnozzi su Barbadillo.it

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