Evita, l’ultimo primo maggio della “Madre de los descamisados”

Nel suo ultimo discorso dal balcone della Casa Rosada fustigò in modo rituale, al solito ossessivo, “il capitalismo straniero ed i suoi lacchè oligarchici ed acquiescenti”

Evita Peron

Eva Perón

Il 1º maggio 1952, sostenuta fisicamente dal marito Presidente alle sue spalle, Eva Duarte tenne il suo ultimo discorso pubblico dal balcone della Casa Rosada, con toni forti contro i nemici del peronismo. Fustigando in modo rituale, al solito ossessivo, “il capitalismo straniero ed i suoi lacchè oligarchici ed acquiescenti”. Il 7 maggio, giorno del suo trentatreesimo compleanno, Juan Domingo Perón nominò la moglie «Jefa Espiritual de la Nación».

Ormai immobilizzata a letto, pesava solo 37 chili. Il 9 gennaio 1950 Evita era svenuta in pubblico ed operata di appendicite; poi le fu diagnosticato un tumore cervicale all’utero. Sottoposta a varie sessioni di radioterapia, il 6 novembre ’51 fu operata, in segreto, invano, dal famoso oncologo statunitense dr. George Pack.

La sua ultima apparizione pubblica fu il 4 giugno al fianco del marito, nell’uniforme di tenente generale dell’Esercito, rieletto, in piedi sulla vecchia Packard presidenziale, per la parata inaugurale. Eva si ostinò ad onorare l’impegno con la somministrazione di molta morfina e di uno speciale sostegno metallico. La sera tornò a letto ed uscì dalla sua camera solo per essere condotta in ospedale. Entrò in coma alle 3 del mattino del 26 luglio ’52, nella residenza presidenziale della Avenida Libertadores. La morte sopraggiunse alle 20:23 di quello stesso giorno, per adenocarcinoma.

Buenos Aires, 4 giugno 1952. Ultima apparizione pubblica. Bettmann Archive

L’orario, nel comunicato stampa per la radio, fu modificato: “A las 20:25 ha fallecido la señora Eva Perón, Jefa Espiritual de la Nación”. Ripetuto inizialmente ogni 15 minuti. A quell’ora, fino alla deposizione del Presidente Juan D. Perón, i notiziari ogni giorno s’interrompevano: “Sono le 20:25 minuti, l’ora in cui Eva Perón è passata all’immortalità”. Era un sabato freddo e piovviginoso. Teatri e cinema interruppero le funzioni, i ristoranti abbassarono le persiane. Il lutto ufficiale (e di fatto obbligatorio) fu di 30 giorni, 16 di funerali. La notte del decesso, la Confederazione Generale del Lavoro emise un comunicato proclamando Maria Eva Duarte de Perón ‘Mártir del Trabajo”. Un altro titolo. Già era la Presidente del Partido Peronista Femenino, la Presidente della Fundación Eva Perón, la ‘Patrona del Oprimido’, la ‘Abanderada de los Humildes’, la ‘Dama de la Esperanza’, Jefa Espiritual e Vice Presidente Honorario de la Nación, collare dell’ Orden del Libertador General San Martin (dato solo ai Capi di Stato), la Patrona della Provincia Eva Perón (la Pampa) ecc. Presto diventerà ‘Santa Evita’.

Perón volle compiacere un diffuso sentimento popolare o, forse, pensò di utilizzare anche da morta la popolarità della moglie. Comunque, egli rese omaggio alla nota necrofilia dei suoi connazionali. Già aveva contrattato (per 100 mila USD) lo spagnolo dr. Pedro Ara affinché procedesse all’imbalsamazione del corpo. Il desiderio di Eva era, peraltro, quello di non essere mai dimenticata. Ara, professore di anatomia, era molto famoso; egli trattò subito dopo il decesso il cadavere di Evita che, accuratamente pettinato e truccato, fu coperto da un velo bianco, avvolto da una bandiera bianca ed azzurra, posto in una bara chiusa da un vetro trasparente ed esposto alla Confederazione Generale del Lavoro. Per 14 giorni il corpo della Madre de los descamisados ricevette il commosso omaggio di una folla immensa, spesso sotto la pioggia. La fila raggiunse i due chilometri. Aspettarono alcuni persino 12-15 ore pur di dare l’ultimo saluto ad Evita. Il 9 agosto la bara venne posta su di un affusto di cannone, circondata da una marea di fiori e da due milioni di convenuti, portata prima al Congresso, quindi, dopo che il cardinale Santiago Luis Copello l’ebbe chiusa, tornò alla sede della CGT. L’arcivescovo, accusato dai militari golpisti di peronismo, dovrà rinunciare nel ’55 ed andare a Roma. Il lavoro di Ara terminò solo nel luglio dell’anno successivo, quando le spoglie di Eva furono esibite su di un letto di seta, sotto una cappa di vetro, mentre la stanza era riempita di fiori e la temperatura mantenuta fresca. In attesa che venisse eretto un gigantesco monumento in suo onore, alto 140 mt., le cui fondamenta vennero distrutte dai militari golpisti (non tutti lo erano e la resistenza peronista pagò un alto tributo di sangue) dopo la ‘Revolución Libertadora’ del 1955. Così come accadde persino all’ottocentesco Palazzo Unzué, ove la Primera Dama era deceduta, per evitare ch’esso diventasse un luogo di culto alla memoria.
Eva Duarte conobbe il colonnello Juan Domingo Perón nel gennaio 1944, quando la città di San Juan venne distrutta da un terremoto che causò più di diecimila vittime. Perón, promosso Segretario del Lavoro dopo il colpo di Stato militare del 1943 – che pose fine alla Década Infame – con la finalità di raccogliere dei fondi per la ricostruzione delle località colpite decise di organizzare un festival, affidato ad una commissione di artisti, tra i quali Eva Duarte. Il 22 gennaio del 1944 durante la manifestazione, alla quale parteciparono effettivi dell’Esercito e della Marina, l’attrice di particine a teatro, di radiodrammi e film, una rappresentante del nuovo sindacato di attori, e l’astro nascente Perón s’incontrarono.

Eva Maria Duarte nacque il 7 maggio 1919 a La Unión, proprietà terriera del padre, vicino al villaggio di Los Toldos, in Provincia di Buenos Aires (secondo altre fonti a Junín il 7 maggio 1922, ma non sono degne di fede), come figlia naturale, illegittima, secondo il lessico del tempo, di don Juan Duarte (1858-1926) e di Juana Ibarguren (1894-1971), anch’essa di origine basca. Era l’ultima di cinque figli – gli altri erano Blanca, Elisa, Juan, Erminda – di un estanciero e politico originario di Chivilcoy e della sua cuoca. Qualche tempo dopo la nascita di Evita, il padre, con oltre 60 anni, abbandonò amante e figli per tornare a Chivilcoy, dai figli legittimi, ai quali era morta la madre. Dopo l’abbandono, Juana si trasferì a Los Toldos con i figli. Eva subì, da molto piccola, molte privazioni e la vergogna d’essere una figlia illegittima, situazione assai diffusa eppur socialmente condannata nell’Argentina d’inizio ’900. L’8 gennaio 1926 il padre di Eva, Juan Duarte, morì in un incidente d’auto. Aveva solo sei anni quando la madre la prese del braccio e, assieme ai suoi fratelli, la portò a Chivilcoy, per assistere alla veglia funebre. La bambina dovette subire nuove discriminazioni, sviluppando una strenua avversione verso le ingiustizie. Le figlie legittime di Duarte, infatti, non volevano lasciar entrare quelle illegittime e fu soltanto grazie all’intervento di un parente che Juan e le sue quattro sorelline riuscirono ad avvicinarsi alla bara e, forse, accompagnarla al cimitero. Eva racconterà come in quell’occasione scoprì “un sentimento fondamentale che mi domina completamente lo spirito e la volontà: questo sentimento è l’indignazione dinanzi all’ingiustizia”. Quell’immagine di umiliazione restò, infatti, marcata a fuoco nella sua vita. Lì ebbe origine il suo violento risentimento ‘antioligarchico’, contro i conservatori, i ricchi benpensanti, i bigotti. I cinque figli di Juana Ibarguren non furono, pare, mai riconosciuti dal padre ed adottarono, di fatto, il cognome Duarte solo dopo la sua morte.
Juan Domingo Perón nacque a Lobos, cittadina a 98 km. dalla Capitale, l’8 ottobre 1895 (forse 1893), in un misero rancho de adobe (mattoni d’argilla), figlio naturale di Juana Sosa Toledo (1974-1953), di origini tehuelche e spagnole, analfabeta, e di Mario Tomás Perón (1867-1928). Il nonno paterno di Juan Domingo fu Tomás Liberato Perón (1839-1889), nato a Buenos Aires, che divenne un medico importante e deputato provinciale, professore di chimica e di medicina legale. La nonna paterna era Dominga Dutey, una uruguaiana di Paysandú, figlia di genitori basco-francesi. I bisnonni paterni furono Tomaso Perón (1803-1856), suddito del re di Sardegna, presumibilmente originario delle Valli Valdesi del Piemonte, che emigrò in Argentina nel 1831, ed Ana Hughes McKenzie, una scozzese nata a Londra. La madre ed il padre di Juan Domingo si sposarono a Buenos Aires nel 1901. L’essere ambedue nati figli illegittimi fu un elemento che, chissà, unì istintivamente Juan Domingo ed Eva. Con scarsi affetti familiari, il ragazzo, entrato nel 1911 nel Collegio Militare della Nazione grazie ad una borsa di studio, si diplomò nel 1913 como sottotenente di Fanteria. L’Esercito divenne la sua vera ed unica famiglia. Contrasse un primo matrimonio nel 1929 con Aurelia ‘Potota’ Tizón, che morì giovane, nel 1938, di cancro all’utero, la stessa malattia di Eva. Non ebbero figli e la maggioranza degli storici e cronisti è concorde nel ritenere Perón sterile. La sua carriera militare fu brillante. Appassionato di molti sport, praticava la boxe e la scherma (fu campione di spada dell’Esercito), amava le corse in motocicletta. La sua corporatura era alta (oltre 1,90) e massiccia. L’ufficiale ascese rapidamente i vari gradi, fu docente di storia alla Scuola Superiore di Guerra, quindi Addetto Militare presso
l’Ambasciata d’Argentina in Santiago del Cile nel 1936. A principio del 1939 venne inviato in Italia per seguire corsi nelle Scuole Militari di Torino, Aosta e Milano di approfondimento in diverse discipline teoriche e pratiche, come economia, politica, alpinismo, sci e persino scalate in alta montagna. Egli era un buon conoscitore della lingua italiana, e visto da vicino, il Fascismo lo impressionò piuttosto favorevolmente. Senza diventarne un ammiratore incondizionato.

Già nel febbraio 1944 il maturo Perón e la giovane attrice – non bellissima, di media statura, piacente, disinvolta, sempre ben vestita e truccata, con le labbra rosse – divenuta presto sua amante, decisero di andare a vivere assieme nel nuovo appartamento di Evita, nella Calle Posadas del quartiere bonaerense della Recoleta. Decisione dai benpensanti poco apprezzata, all’epoca, per un ufficiale superiore e Ministro, ma segno inequivocabile dell’adesione dell’uomo ad una moralità non convenzionale. Più che colpo di fulmine o attrazione erotica, essi dovettero, sedursi vicendevolmente per gli interessi politico-sociali, il fascino del potere, l’ambizione di complementarsi, di realizzare una profonda azione di rinnovamento, per certi comuni aspetti delle loro multiformi personalità. ‘Ideali e sentimenti’, dirà Perón anni dopo. Si sposeranno civilmente a Junín, il 22 ottobre 1945, e successivamente in chiesa, a La Plata, in vista delle elezioni.

Il rapporto Juan Domingo-Evita

Non è neppure il classico rapporto da Pigmalione e Galatea, il maturo ufficiale e politico che ricerca la donna perfetta, che aspira a plasmare trasmettendole le sue conoscenze. Perché la giovane Duarte potrà non conoscere molti fatti della storia, ma percepisce al volo situazioni, pericoli, trappole, vantaggi e svantaggi dell’azione. È collerica, ma dotata dell’astuzia ruspante, rustica per l’origine, di chi nella vita ha sempre dovuto sfangarla. Forse, anche con un aborto volontario mal riuscito, che sarà poi all’origine della sua malattia. Perón affermerà di essersi innamorato della sua bontà e probabilmente non mentiva. Non era mai stato un amante focoso. Non possedevano, nessuno dei due, dei temperamenti passionali.
Il militare aveva una personalità meno complessa ed impetuosa di quella di Eva, era intelligente e colto, pur diffidente degli intellettuali, gioviale, arguto, naturalmente sorridente, controllato, socievole, gli piacevano i cani barboncini; era in fondo austero e spartano, portato agli sport, appassionato alle corse automobilistiche ed alla vita semplice, all’aria aperta. Quando gli rimprovereranno di non aver resistito in armi al golpe del 1955 risponderà, burlone: “Soy un general pacifista, algo así como un león herbívoro”. Militare e nazionalista sino al midollo, mai Perón avrebbe consapevolmente voluto una guerra civile, anche se altri, in suo nome, ne saranno poi tentati o per essa lavoreranno.

Terza Posizione

Oltre Perón ed il suo esperimento – inaugurato dopo la vittoria alle elezioni del 24 febbraio 1946, di democrazia sociale autoritaria, di ‘Comunità Organizzata’, di una vaga “Terza Posizione”, tra il socialismo leninista sovietico e l’imperialismo capitalistico statunitense, sull’esempio dell’Italia fascista, che aveva proposto il corporativismo, di matrice cattolica, quale superamento di comunismo e capitalismo – l’ascendente ed il mito di Eva crebbero con forza travolgente, valicarono le frontiere. Sin dall’inizio, la Presidenza Perón fu di fatto una diarchia. Ove la moglie, una volta dirozzatasi un po’ (anche se rimase con un lessico incerto), occupava uno spazio sempre maggiore. Una delle benemerite battaglie vinte dalla Primera Dama fu quella che portò al riconoscimento dell’uguaglianza dei diritti politici e civili tra gli uomini e le donne, con la legge presentata il 23 settembre del 1947. Finalmente, il suffragio era universale anche in Argentina.
Dopo la vittoria fu Eva – presto ribattezzata Evita, con i capelli tinti di biondo, sempre ingioiellata ed elegantissima – che funse da intermediaria tra le richieste ed i problemi dei lavoratori e Perón. Amata ed odiata, ogni giorno di più. Fino a convertirsi in un personaggio unico, straordinario della storia universale, più di Giovanna d’Arco o della regina Isabella di Castiglia. Lei non agiva mossa dell’ideologia del peronismo: il suo era un impulso metapolitico, radicalmente sociale, morale e pragmatico insieme. Pensava ad un’economia del dono, della concordia, del sacrificio, del riscatto. Le venivano attribuite smanie di protagonismo esagerate, vendette contro oppositori per mano della polizia. Finirà per avere dalla sua il popolo minuto e contro quasi tutti quelli che hanno beni e che contano, nell’economia, nelle università, nelle professioni, nelle caserme, e l’intelligenza. Per Borges, ad esempio, lei era solo una prostituta e per l’élite una yegua, una giumenta, cioè una donna di facili costumi, prepotente e sboccata.

Sacralità paganeggiante

Un’aura di sacralità paganeggiante si mesceva con effluvî sulfurei, odî acuti, dilaganti. Al di là degli eccessi demagogici, carichi di violenza verbale – ed anche ‘scivolate’ nepotistiche a favore di suoi parenti, per lo più inadeguati – è però innegabile che la classe lavoratrice identificò nella persona di Evita, più che non nel generale Perón, l’anelo ad un’autentica e non superficiale ‘giustizia sociale’. Grazie al justicialismo le classi meno abbienti poterono accedere alle Università, i lavoratori ebbero diritti altrove già riconosciuti. Anche se il sindacalismo divenne più potente della politica. Molti hanno scritto dei capricci di Evita, delle sue intemperanze, delle sfuriate verbali offensive, del pessimo carattere, ombroso, diffidente e suscettibile, del suo arrivismo; prepotente ed ambiziosa, ostinata e dura come il suo sangue basco. In lei colpivano, con un ammirevole e sincero amore per i diseredati, la lingua affilata, un carisma nutrito di teatralità, di gestualità seduttrice, lo spirito organizzativo, il dinamismo infaticabile. Una personalità intollerante ed insofferente di critiche, nella quale scarseggiavano senso della misura, diplomazia, abbondando gli incitamenti demagogici alla lotta.

La costruzione della “Santità” di Evita

L’Argentina era un Paese profondamente cattolico con manifestazioni di religiosità popolare di tipo meridionale, assai esteriorizzate. Fu alquanto spontanea, quindi, la ‘costruzione della Santità’ di Evita Perón. Mentre la giovane donna agonizza, nelle strade, nelle chiese e nelle case la gente esprime il suo dolore, immagina la morte prossima della amata ‘patrona’, rimpiange la presenza del suo corpo. Il lutto si estrinseca in pianti, preghiere, messe, processioni, atti commemorativi nei quali si venerano ritratti, statuette, s’improvvisano altari. Lo Stato le renderà molteplici omaggi e come una sovrana sarà effigiata sui francobolli. Il quotidiano justicialista “Democracia” comparerà Evita con ‘la Voce di Cristo’. La sua morte a 33 anni, come Gesù, segna l’inizio di un periplo doloroso e trionfante nel quale il corpo della ‘Jefa Espiritual’ svolge un ruolo centrale. Mentre lo strano dottor Ara lavora alacremente per immortalizzare la salma, pulendo accuratamente il corpo della defunta per eliminare i segni della malattia e della morte…
Il suo ‘corpo spirituale’ esige un lutto pubblico reiterato, incessante. Così il 17 Ottobre 1952, ‘Día de la Lealtad’ (in ricordo della liberazione di Perón, allora Vice Presidente, dalla detenzione nell’isola di Martín García, nel ’45), viene dedicato ad Evita. Il famoso balcone della Casa Rosada sulla Plaza de Mayo, addobbato con crespi neri, funge da scenario per riascoltare la voce registrata del discorso pronunciato da Eva il Primo Maggio precedente, quando chiese al popolo di gridare: “¡La vida por Perón!”. Quindi, il Presidente legge alla gran massa presente il testamento che la moglie aveva redatto il giugno precedente. In esso disponeva di lasciare tutti i suoi gioielli alla Fondazione, chiedeva al popolo peronista di difendere il generale dai suoi nemici e continuare ad inviare lettere a suo nome. La donna intuiva la necessità, per la cultura popolare, di permanere unita al suo corpo di materna intermediaria. Con la sua morte il cuore delle masse descamisadas quasi si arresta, angosciato per aver perso chi le difendeva ed amava. Adesso la tremenda forza di una donna che aveva cambiato la storia di milioni di argentini si era spenta. Il legame ideale tra Eva e le masse rimase, tuttavia, poderoso, un ‘cordone ombelicale’ che in parte sussiste ancora oggi, 70 anni dopo. Un personaggio estremo, che richiama alla mente, tra l’altro, Sobre Héroes y Tumbas di Ernesto Sábato. Eccessivo, senza sfaccettature, come altri argentini.

Santa Evita

 

Santa Evita

“Santa Evita” si avvicina, per alcuni, a Giovanna d’Arco, altra santa portatrice della spada e identificata con la lotta. Tuttavia la pucelle d’Orléans non aspirava a sovvertire il potere taumaturgico e patriarcale della Monarchia di Francia. Giovanna alzava il suo grido di guerra legittimando tale potere, riaffermandolo. Invece, il grido di guerra di Evita risuonava forte contro le convenzioni conformiste, dai margini dell’illegittimità, dei ceti umili, sottomessi, sfruttati, dolenti, bambini, donne ed anziani in miseria, meticci cabecitas negras, per proporre un cambio radicale: la ‘rivoluzione’, con il suo fascino tenebroso, dai contorni indefiniti eppur cruenti. Tra il maggio 1952 ed il luglio 1954 il Vaticano riceve quarantamila lettere di laici che attribuiscono ad Evita molteplici miracoli, che esigono al Papa Pio XII la sua canonizzazione, poichè le virtù della defunta eguagliano quelle della Vergine Maria. Ovviamente, il processo di canonizzazione è archiviato, ma Eva si santifica nella cultura popolare, diventa una figura immortale, oltre il mito.
Senza Evita, il potere ed il fascino di Perón declinano. Nel 1955 in una nazione divisa, travolta dagli odî, dalla diffusa corruzione (lo stesso fratello di Eva, il piccolo mefetreque Juancito, ne fece le spese, morendo ufficialmente suicida), il caudillo cade, ma il suo ascendente non s’estingue. Il peronismo non si era spento da sé, nonostante apparisse a molti osservatori un regime esausto, dai tratti arbitrarî e soffocanti: cadde per un atto di forza, lasciando il popolo orfano. Si determinarono così le condizioni perchè, pur proscritto e perseguitato, divenisse oggetto di idealizzazioni romantiche e si apprestasse a risorgere più forte di prima, contaminato dall’onda lunga della successiva rivoluzione cubana. Perdurando. Perón aveva commesso vari errori (in economia, per la laicizzazione dello Stato, il progetto di divorzio ecc. ai quali si aggiunsero profanazioni e saccheggi di chiese per mano comunista) che irritarono la Chiesa di Pio XII, assai attento alle vicende argentine, ed i militari conservatori, dandogli il colpo di grazia.
Quando, il 16 settembre 1955, Perón è destituito dalla ‘Revolución Libertadora’ (più che della libertà la rivincita del vecchio conservatorismo cattolico, di nostalgie di ottuso immobilismo sociale), nella confusione del momento il dottor Pedro Ara chiede al fuggitivo Presidente che cosa debba fare del cadavere di Evita; che, assillato da questioni più urgenti, si limita a promettergli future istruzioni, che mai giungeranno. L’esilio di Perón durerà sino alla fine del 1972. Morirà da Presidente costituzionale il 1 luglio ’74, indossando, defunto, l’amata uniforme di teniente general.

La salma

La salma di Evita costituiva per i militari uno scomodo motivo di preoccupazione, in quanto le mortificate folle peroniste non pensavano affatto a dimenticarla, al di là di ogni campagna denigratoria. Il generale Pedro Aramburu, dopo aver destituito il ‘moderato’ Eduardo Lonardi, optò allora per recidere il nodo gordiano, decisione che gli costerà la vita, nel 1970, per mano dei Montoneros. Curiosamente, Lonardi era succeduto a Perón quale Addetto militare in Cile e venne coinvolto (con annessa breve detenzione) in un caso di spionaggio che era stato, si disse, preparato da Perón stesso. Lonardi partecipò, altresì, al tentativo di golpe militare antiperonista del 1951 e fu costretto a ritirarsi dall’Esercito, pur col grado di generale di divisione.
Aramburu, molto più ‘gorila’ (antiperonista), di Lonardi, affidò la mummia al capo del Servizio d’Intelligenza dell’Esercito (SIE), tenente colonnello Carlos Moori Koenig, con l’ordine non di distruggerlo, ma di ‘farlo sparire’ con discrezione. Così il cadavere di Evita fu ritirato dalla CGT il 23 de novembre 1955. Ma la mattina seguente, nel luogo dove era posteggiato il camion, in attesa di una decisione, furono trovate candele accese e fiori. Fiori e candele che ossessivamente segneranno l’odissea di quel corpo imbalsamato, nonostante i tentativi di confondere i peronisti. Moori Koenig lo tenne presso di sé, disubbidì l’ordine di farlo seppellire, dando mostra di un crescente squilibrio mentale. Forse non lo abusò sessualmente, come pur si disse, ma lo manipolò con frequenza, esibendolo ai suoi ospiti con morboso compiacimento necrofilo. Quando la cosa venne riferita ad Aramburu, questi destituì Moori Koenig ed incaricò il tenente colonnello Héctor Cabanillas di provvedere. Egli propose di far uscire il corpo dal Paese ed organizzò, in gran segreto, l’‘Operativo Traslado’.
Le peripezie del corpo di Evita sono state magnificamente descritte da Tomás Eloy Martínez, sia pure con varie licenze, nel suo famoso libro Santa Evita (1995): ‘Morta e santificata, Evita continuava a terrorizzare i suoi nemici, più di quando era viva’, suscitava passioni antitetiche, aspre, estrema ‘admiración y rechazo’. D’intesa con il Vaticano, la mummia venne di nascosto trasferita, inumata in una fossa profonda nel Cimitero Maggiore di Milano, come María Maggi de Magistris, fino alla restituzione a Perón, nel settembre 1971, a Madrid. Per decisione del generale Lanusse, allora Presidente, deciso a ridare all’Argentina la stabilità istituzionale, mai conseguita dal ’55 in poi, per la proscrizione del peronismo e la presenza militare al vertice statale.

La tomba della famiglia Duarte

Buenos Aires, Cimitero della Recoleta, Tomba di Eva Duarte de Perón

Oggi la salma di Eva riposa nella tomba della famiglia Duarte, nel Cimitero bonaerense della Recoleta, sotto lastre di cemento ed acciaio, per decisione del Presidente Videla (1976).
Al di là delle poche celebrazioni previste per questo 70mo anniversario, così come per il centenario della nascita, nel 2019, della retorica riesumata e delle residuali polemiche ideologiche, rimane la sua vita un punto fermo per chiunque voglia accingersi a giudicarne serenamente la figura umana e storica. Lei, alla quale fu negata la maternità biologica, si sentiva veramente la Madre de los Descamisados e di tutti gli emarginati, umiliati ed oppressi d’Argentina. In modo generoso e fazioso. Come una madre agguerrita e possessiva amava, perdonava, proteggeva senza limiti, pur esigendo rispetto, obbedienza. Caparbia, appassionata, implacabile. Alla luce di tale sentimento esasperato, ma assai convinto, ogni considerazione pacata, seria, su sindacalismo, populismo, corporativismo, autoritarismo, democrazia liberale o non, pluralismo, immaginario unanimista, meriti, limiti e velleità del justicialismo ecc., diventa non ardua, ma secondaria.

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Gianni Marocco

Gianni Marocco su Barbadillo.it

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