Il 29 ottobre del 1929 alla borsa di New York avviene il crack del martedì nero che divora sicurezze e speranze. È l’inizio di una crisi che coinvolgerà gli abitanti degli Stati Uniti spazzando via lavoro, risparmi. L’America è in fila per il pane, l’America è alla fame. È la Grande Depressione. Il Big Crash provoca panico e follia: devastazione. L’America è il paese dei ribelli, dei vagabondi, i famosi hobo, il loro tetto il cielo. Ma adesso tutti si ritrovano ad essere tali e non sermoneggiano Alleluia!
Il New Deal, il piano grandioso di opere pubbliche del governo Roosevelt ideato e promosso per contrastare la crisi, sarà introdotto solo nel 1933. Il capitalista che ritrovandosi fallito si getta dal balcone è come se trascinasse con sé i suoi dipendenti che diventano disoccupati e mendicanti. Se non c’è il padrone il salariato va in rovina. È il difetto del liberalismo.
Arriva Keynes l’economista salvatore: è contro la disoccupazione ritenuta necessaria per regolare offerta e domanda, condanna i bassi salari, ma è involontario padrino della guerra. I colossi industriali con la caccia avida di nuovi mercati causeranno interferenze internazionali, contrasti, conflitti d’interesse e inevitabilmente, prima o poi, l’urto.
E infatti la crisi esalerà i suoi gemiti con Pearl Harbour, con una guerra mondiale. Per apporre la sua fine una immane sciagura finanziaria ne chiede un’altra sconvolgente e sanguinosa. Il capitalismo offre di nuovo abbondanza e benessere ma è beffardo, la sua pretesa è crudele. Despota, impone sul suo altare Il sacrificio di ogni valore e dopo ci sarà la festa pagana, l’orgia dei consumi e dello sperpero.
Nell’Oklahoma i flagelli sono maggiori. Il dust bowl, tempesta di sabbia, desertifica i terreni. È come se un dio scordarello avesse mandato una piaga d’Egitto fuori tempo e nel posto sbagliato. Una catastrofe. Inoltre l’introduzione dei trattori diminuisce drasticamente la richiesta di braccianti. I trattori non amano la terra, scriverà Steinbeck. Le fattorie e i terreni vengono espropriati dalle Banche.
Ed ecco la speranza in un volantino sventagliato. Aranceti e campi di cotone in California richiedono mano d’opera ben remunerata, imbonitori prezzolati indicano la Terra Promessa. E una folla di zappaterra si riversa sulla Route 66, il sentiero di un popolo in fuga. Verso la costa dell’Oceano Pacifico, verso un luogo dove scorrono latte e miele, si sussurra. Siamo nell’anno 1936. Per le sue dimensioni la diaspora rammenta l’esodo degli Ebrei.
In quella calca di migranti c’è la famiglia Joad, e Tom Joad è l’uomo più aitante del gruppo. Il protagonista. Tutti i loro beni e loro stessi caricati su un vetusto camion, un Hudson, le balestre schiacciate dal sovraccarico. “Camere d’aria che scoppiano e copertoni in malora… Macchine che arrancano lungo la 66 come cose ferite, rantolanti.” Il nonno seppellito per strada senza funerale. Patriarca detronizzato era già morto allo sradicamento dalla sua terra come il maiale ucciso alla partenza.
Crolla tutto ma la famiglia resiste, grazie alla energica Ma’, la mamma, che cura e sorveglia il nido anche se questo sobbalza e rotola. Esplicito il ruolo delle mogli, delle madri nella vicenda: “Gli uomini la vita la portano dentro la testa, noi donne la vita ce la portiamo sulle braccia.”
In California li accolgono misere baraccopoli. I migranti sono sottopagati e costretti a fare i crumiri a danno di altri lavoratori. Una lotta ben orchestrata di disperati contro disperati. La miseria e il sopruso sono parenti stretti. Questo in una società che contiene sacche di profitti sprecati.
La gente dell’Ovest teme l’invasione di quella fiumana di disereditati. Sono gli okies, questo l’appellativo dispregiativo usato per quei campagnoli nomadi. Facinorosi del luogo che li ritengono ladri e sovversivi incendiano l’accampamento. Anche nelle successive strutture governative e autogestite le angherie continuano ad opera di una polizia tracotante.
Nel contesto ci sono i prodromi di lotta sociale, una consapevolezza di classe. La paura è sostituita dalla rabbia, la paura in furore e così gli uomini ritrovano l’onore, il loro amor proprio. “Il confine tra fame e rabbia è un confine sottile.” L’io diventa noi a causa delle necessità, del bisogno di aiuto. Di solidarietà. I diritti affidati all’ira del singolo maturavano e divenivano corali. È il percorso morale e sociale di Tom. Il suo commiato: “Sarò negli urli di quelli che si ribellano.” Questa la sua promessa. (Nel 1995 Bruce Springsteen gli dedica una canzone: The Ghost of Tom Joad.)
All’autore della storia il riconoscimento di sporcarsi le mani con la realtà. Usa lo slang che fa storcere il naso ai puristi ma è per abbrancare meglio la verità, abbandonare la retorica narrativa per il loro gergo volgare, per indossare i loro abiti sdruciti, a rutti e scoregge. Non sono un pubblico ma uomini e donne che respirano nelle pagine, anche nelle foto della Farm Security Administration e nei quadri di Ben Shan. Può sembrare didascalico invece scolpisce.
E l’ultima scena è pastorale, biblica. Ma’ ordina a tutti di uscire, andare nel capanno attrezzi, e Rose of Sharon, la figlia, offre il seno a un padre che sta morendo di fame. La donna, come è stata madre dell’uomo, saprà esserne la balia qualsiasi età lui abbia.
Il libro è “Furore” di John Steinbeck, traduzione allegorica di “The grapes of wrath”, stampato nell’anno 1939. Riceve il premio Pulitzer 1940, e lo scrittore il Nobel per la Letteratura nel 1962. Alla sua uscita il libro riscuote un gran successo ma viene messo al bando dalle organizzazioni degli agricoltori, anche bruciato e il capo del FBI Hoover sospettoso ci mette il naso. L’accusa: ha oltraggiato il sogno americano. Steinbeck è sorpreso da tanto scalpore, è un populista ma non socialista e tantomeno comunista. Il romanzo è nato da suoi precedenti articoli sulle precarie condizioni dei contadini ed è considerato un manifesto del New Deal. Il consenso è amplificato dalla personalizzazione di Tom Joad in Henry Fonda nel film di John Ford. L’enorme quantità di copie vendute, quindici milioni ad oggi, ammutolisce i critici da lui definiti: “una casta di sacerdoti eunuchi”.
I migranti di Steinbeck sono lontani parenti dei nostri cafoni del sud, questi più stanziali sino a che il pifferaio Agnelli e la Fiat li reclamano a Torino. Con la Mole, il parco del Valentino e il miraggio del lavoro la città si maschera da California malgrado l’aria gelida che rotola dalle Alpi. Al Lingotto li attende il servaggio della catena di montaggio, ridicolizzata da Chaplin.
Il cammino del sindacato yankee è tortuoso, colmo di insidie. Nel 1905 a Chicago viene fondato Il movimento sindacalista rivoluzionario International Workers con i suoi angeli predicatori, gli Wobblies. Cercava di indottrinare la massa dei reietti, dei lavoratori stagionali, ma questi in gran parte lo rifiutavano, non volevano collari, erano individualisti. E più avanti dal cinema sono giunti sprazzi non esaltanti che confermano la possibile contaminazione del sindacato con la mafia. Il volto tumefatto di Marlon Brando che si è opposto alle vessazioni nel film “Fronte del porto” di Elia Kazan, dai 7 Oscar. Irishman di Martin Scorsese. In questo film Al Pacino interpreta Jimmy Hoffa capo sindacalista dei camionisti dal gran carisma sugli associati, aderenti o costretti. Scomparso nel 1975: probabilmente cementato o seppellito in una discarica. E santo o delinquente?
La ragione del perenne successo di “Furore”? L’epopea descritta è senza tempo. Dopo ottanta anni dalla sua pubblicazione ci coglie la noia di ritrovarsi ancora con le stesse calamità sociali. La tecnologia ha compiuto passi giganteschi ma le migrazioni forzate per fame, gli abusi con delocalizzazioni licenziamenti e diseguaglianze permangono. Fenomeni diversi nelle forme ma non nelle conseguenze. Gli eccessi di produzione gettati e non distribuiti: nel libro sono le patate buttate nel fiume e le arance macerate. Allora come ora. Per non accennare alle tragedie del primitivo modo di risolvere le contese: le guerre, rese piccanti dall’armamento atomico. Un sequel di caverna e clava con Fred e Wilma Flintstones.
Nel campo sociale la ribellione trova sfogo contro l’ipotetico padrone ma nella vita? In essa l’uomo è il padrone di se stesso. E purtroppo accade che tutto si riduca a uomo contro uomo. Gli sceriffi arroganti e prevaricatori dei campi profughi allestiti per gli okies sono ovunque, li incontriamo e magari li affrontiamo ogni giorno. A condurre il gioco è l’uomo, siamo i discendenti di quel Caino al quale Eva trasmise il veleno del serpente. D’altronde l’uomo, a sua discolpa, è un prodotto che nasce senza libretto d’istruzioni.
Il mio pensiero va all’etologo Konrad Lorenz, all’imprinting delle oche selvatiche. Siamo ancora e sempre come quei pennuti anatroccoli pronti a seguire il capo che si finge noi? In fila e obbedienti al suo qua qua qua?
A Torino i cafoni del sud trovano sofferenze e sacrifici, certo, ma è la FIAT di Valletta che dà loro una dignità prima sconosciuta, è Torino che li inserisce nella vita civile, è il capitalismo che converte la miseria antica in moderato benessere. Quello è l’ascensore sociale che per secoli era stato affidato solo alla Chiesa ed alle armi. Senza nulla togliere a Steinback, la politicizzazione anticapitalistica della grande Depressione, il mito stolto, effimero, contingente di Keynes e del New Deal, rischiano di assumere connotati fuorvianti e falsi. Con Roosevelt si restaura il capitalismo, non si va verso il socialismo.
…e assieme ai cafoni del sud i contadini piemontesi e poi veneti….
Grazie alla FIAT, alla Olivetti ed alle grandi imprese del nord i figli e nipoti di quei ‘cafoni’ approdano all’Università. Non dimenticatelo, in questo revival socialistoide obsoleto!
I sindacati americani sempre furono controllati dalla mafia. Non è un dubbio. Pure in Italia il malaffare è profondamente radicato nel sindacato.