La strage di Bologna nel racconto di Mambro e Fioravanti

Ristampato per Cairo il saggio di Andrea Colombo, giornalista di sinistra, innocentista, già critico della vulgata ideologica che ha influenzato le sentenze sul 2 agosto

Storia nera. Bologna. La verità di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti

Nel sempre più abbondante novero di pubblicazioni, dossier, inchieste giornalistiche e conferenze dedicate alla strage di Bologna del 2 agosto 1980, spesso contrassegnate da pregiudizi che occludono la possibilità di ricostruire la vicenda in maniera obiettiva, “Storia nera: Bologna. La verità di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti” – monografia del giornalista di sinistra Andrea Colombo pubblicata nel 2020 in una versione aggiornata da Cairo editore – si segnala come rilevante eccezione.

L’individuazione immediata della “matrice fascista” – contestata da questo sito e da tanti ricercatori  liberi – consentì di inchiodare alle proprie responsabilità l’estremismo di destra e di far fronte ad un clima di smarrimento e paura che attanagliava non solo l’opinione pubblica, ma anche una classe dirigente timorosa di venire travolta dall’esasperazione e dalla delegittimazione popolare. L’autore dedica ampio spazio alla biografia dei protagonisti e a quella dei Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR) evidenziandone i connotati politici, che ebbero un peso maggiore rispetto alle prove materiali raccolte nelle varie sentenze. 

Anarchici a destra – I NAR

Influenzato “dalla mistica della rivolta” veicolata dai primi sceneggiati della TV dei ragazzi (Sandokan, Ivanhoe), Fioravanti trasmise ai NAR il gusto romantico di sentirsi minoranza assoluta, la disobbedienza e il rifiuto categorico delle gerarchie, il disprezzo verso chi sfruttava la generosità e il coraggio dei ragazzini che, nel clima arroventato degli anni di piombo, scelsero la strada della violenza. Dinamiche familiari complesse – i rapporti conflittuali con il fratello Cristiano e i dissidi di entrambi con il padre – furono decisive nel passaggio dal distacco disincantato alla militanza, non prima di aver appurato che all’interno del MSI alcuni spazi di autonomia giovanile (come quello del FUAN romano di via Siena) sfuggivano al controllo dei vertici.

L’adesione alla guerra per bande sfociò in una forma di terrorismo che colpiva da destra, ma si poneva al tempo stesso l’obiettivo di rompere con la tradizione neofascista, scagliandosi contro i gruppi extra-parlamentari di quell’area politica accusati di ambiguità e collusioni con lo Stato.

Più convinto rispetto a quello del futuro marito, l’attivismo politico della Mambro si caratterizzò per la rivendicazione di istanze – lotta al carovita, agli sfratti e ai licenziamenti, sensibilizzazione per le tematiche ambientali – di fasce popolari escluse dalla società del benessere: lontana dalle forme reducistiche di alcuni ambienti missini, concepì il partito come comunità orientata a diventare depositaria delle battaglie per la giustizia sociale, intercettando le aspirazioni dei giovani che respingevano la militanza ridotta a puro e semplice anticomunismo.

Nello scontro quotidiano con i rossi il movimentismo di destra – nato dalle inquietudini della generazione che identificò nelle forze dell’ordine nemici da combattere e nel rifiuto dei padri di difenderla le ragioni di una rottura profonda – agì emotivamente imbracciando le armi, proponendosi in modo confuso di spostare l’obiettivo del conflitto verso lo Stato.

Ripercorrendo le tappe salienti della rivalità con il gruppo di Terza Posizione, Fioravanti indica nella rissosità e nella diffidenza cronica una delle principali caratteristiche dello “spontaneismo armato”: un frazionamento riconosciuto da varie procure ma non da quella bolognese, verosimilmente indirizzata dal “teorema” del Pubblico Ministero romano Mario Amato secondo il quale azioni apparentemente scollegate tra loro facessero in realtà parte di un disegno eversivo unitario e compatto.

L’esperienza dei NAR – cementata in gran parte da vincoli di carattere amicale, come quello della divisione netta dei proventi delle rapine di autofinanziamento e alle armerie – si contraddistinse per l’elevata mobilità in entrata dei militanti di base delle altre formazioni (“avevamo l’esigenza di bluffare perché eravamo pochi…ma volevamo sembrare tanti”) a fronte dell’incompatibilità con i loro capi, configurandosi come esperimento politico-ideologico anarchico.

Contraria alla retorica rivoluzionaria, priva di obiettivi ben definiti e propensa a mimetizzarsi attraversando di continuo i confini tra la criminalità politica e quella comune, la nuova “banda Bonnot” – come la definì il suo membro Alessandro Alibrandi, riferendosi alla formazione francese di inizio secolo che utilizzava per i suoi colpi l’automobile – concepì l’organizzazione stessa degli attentati non in modo verticistico ma sulla base del senso di responsabilità dei singoli. 

La deliberata mancanza di pianificazione provocò a volte delitti e ferimenti non programmati, azioni maldestre e mortali per gli stessi terroristi, esponendo non di rado il loro operato ad equivoci: nel giugno 1980 l’omicidio di Amato, giustiziato per non aver “compreso” la vera natura dei NAR, venne interpretato come un’offensiva su larga scala e non quale ultimo atto prima di uscire di scena. Il logoramento interno si consumò dopo tra polemiche, odi e rivalità personali a seguito degli arresti di Fioravanti e Mambro, rei confessi di numerosi omicidi ma non della strage di Bologna.  

“Appesa nel vuoto”

Colombo raccoglie diversi elementi a supporto della tesi secondo la quale i processi relativi all’attentato della stazione si distinguono per una “logica rovesciata”, fondata sull’assioma di partenza della colpevolezza (e follia) degli imputati. La più importante tra le informative fabbricate dal SISMI – la messinscena del depistaggio della valigia piena di esplosivo fatta ritrovare sul treno Taranto-Milano che indirizzò direttamente verso la banda Fioravanti le indagini, fino a quel momento orientate verso altri ambienti “neri” – era finalizzata per i magistrati ad allontanare i sospetti da essa; l’assenza di movente provò che gli accusati – contraddicendo la propria forma mentis – agirono agli ordini e per conto di un’organizzazione; le assoluzioni dei coimputati furono conseguenza diretta delle reticenze dei condannati.

Un indizio di colpevolezza poi smentito dal Tribunale di Roma fu il collegamento con l’omicidio di Francesco Mangiameli, esponente di spicco di Terza Posizione: il libro ricostruisce le ostilità emerse durante la collaborazione finalizzata a far evadere dal carcere il terrorista nero Pierluigi Concutelli. Nell’atmosfera d’isteria scatenata dopo i mandati di cattura che decimarono l’estrema destra dopo la strage, i NAR considerarono le evasioni l’unico gesto concreto per dare un senso alla lotta armata, mentre il loro interlocutore – beneficiario secondo alcune ricostruzioni di somme di denaro che non avrebbe più restituito – propose piani talmente inverosimili e rischiosi da ingenerare in Fioravanti il sospetto che volesse indurlo a desistere dall’impresa.

Il pentito inverosimile Sparti

Se alcuni fili collegarono i NAR sia alla banda di Vallanzasca per il supporto logistico ricevuto durante il periodo della latitanza milanese sia loro singoli membri alla banda della Magliana, le condanne degli imputati di Bologna si basarono sulla testimonianza di un pentito di terzo piano della holding criminale romana: Massimo Sparti. La sua versione dei fatti – infarcita di particolari inverosimili, come il travestimento di Fioravanti da turista tirolese alla stazione – venne smentita anche dai suoi familiari ma considerata attendibile dai magistrati: una conclusione discutibile sia perché il testimone fu costretto a correggere a più riprese le proprie dichiarazioni, sia alla luce del fatto che ottenne la scarcerazione nel 1982 per gravissimi motivi di salute, in quanto malato terminale di un tumore misteriosamente scomparso per i successivi venticinque anni.

Un altro collaboratore di giustizia dalla credibilità sospetta – il massacratore del Circeo Angelo Izzo – ispirò sia le deposizioni che individuarono in Licio Gelli il mandante della strage organizzata da Fioravanti e Mambro, sia la testimonianza di Cristiano secondo la quale Mangiameli fu ucciso perché coinvolto nel delitto Mattarella, compiuto materialmente dal fratello e da Cavallini: nel corso del processo fu il rappresentante dell’accusa a chiedere l’assoluzione degli imputati.

Indicativi della debolezza della ricostruzione sul più grave eccidio della storia repubblicana sono il parere dell’ex presidente della Commissione stragi Giovanni Pellegrino, che definì la sentenza “appesa nel vuoto” ed un passaggio della sentenza/ordinanza del 1998 del giudice Guido Salvini il quale, riferendosi, agli spostamenti dei due imputati a ridosso del 2 agosto 1980, scrisse che “pur non costituendo tecnicamente un alibi…risulta notevolmente rafforzata la descrizione che del meccanismo dei movimenti di quel giorno hanno sempre fornito per dimostrare la loro presenza a Padova”.

Le piste alternative 

Le convergenti esigenze della magistratura di blindare la condanna a titolo di “risarcimento” per le stragi rimaste senza colpevoli e dei servizi di depistare in nome della ragion di Stato stroncarono sul nascere le velleità di ricerca di piste alternative. Collocato in una sorta di terra di nessuno anche da un punto di vista cronologico, il misfatto è stato collegato ad altri livelli a quello di Ustica.

Nella cornice del veloce deterioramento dei rapporti del nostro paese con la Libia, i dubbi che due avvenimenti così ravvicinati fossero messaggi indirizzati all’esecutivo italiano colsero anche il sottosegretario agli Esteri Giuseppe Zamberletti, protagonista della stipula di un trattato di assistenza militare italo-maltese fortemente osteggiato dal SISMI, allarmato dalle possibili ritorsioni di Gheddafi.

I lavori della Commissione Mitrokhin hanno attribuito consistenza alla cosiddetta pista palestinese, concentrando l’attenzione su Carlos lo Sciacallo (terrorista di fama internazionale di nazionalità venezuelana, non argentina come riportato dall’autore), il quale svelò la presenza a Bologna il 2 agosto 1980 di Thomas Kram, esponente delle Cellule rivoluzionarie tedesche; tale elemento è stato ignorato sino ad anni recenti dalla procura, nonostante il rapporto ricevuto dal capo della polizia e le segnalazioni fatte alle autorità italiane da quella della Repubblica federale tedesca parecchio tempo prima della strage. 

Lontana dalla verosimiglianza l’ipotesi che nel 1980 gruppi eversivi di destra coltivassero propositi golpisti, è invece probabile che informazioni utili debbano essere ricercate – nel contesto del lodo Moro e del ruolo svolto dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, che avrebbe commissionato a Carlos l’azione poi materialmente eseguita dai terroristi tedeschi – tra le informative inviate dal colonnello Stefano Giovannone (capocentro del SISMI a Beirut) e secretate dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento dello statista democristiano. Francesco Cossiga ha accreditato l’ipotesi dell’incidente di percorso, cioè che la bomba sia esplosa durante il trasporto verso il luogo di un attentato che avrebbe dovuto verificarsi altrove. 

Il corpo di Maria Fresu

Risuona beffardo e sinistro l’ulteriore mistero attorno alla vicenda di Maria Fresu, probabile ottantaseiesima vittima svanita nel nulla: le analisi del sangue effettuate sui presunti resti stabilirono che appartenessero alla donna sulla base della teoria della “secrezione paradossa”, oggi considerata unanimemente priva di validità scientifica.

Il saggio di Colombo rispecchia le lacune della versione ufficiale e si occupa anche delle ipotesi processuali più recenti: l’ultima – che individua i mandanti nei defunti Gelli, Ortolani, D’Amato e Tedeschi – sottovaluta ancora una volta che la loggia massonica P2 aveva già in precedenza piazzato propri uomini in posizioni strategiche e non avrebbe tratto alcun beneficio da una mattanza che non determinò effetti politici rilevanti.

E’ cronaca degli ultimi giorni che per il presunto esecutore materiale della strage – Paolo Bellini, ex esponente di secondo piano di Avanguardia Nazionale tirato in ballo dal fotogramma di un video girato alla stazione da un turista tedesco e che non aveva conoscenze dirette tra i NAR e nella P2 – è stata chiesta la condanna all’ergastolo da parte della procura, pronta a smentire la polizia scientifica di Roma “rea” di aver reso più comprensibile l’audio di un nastro il cui contenuto, non costituendo più prova a carico, potrebbe alleggerire la posizione dell’accusato.     

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Andrea Scarano

Andrea Scarano su Barbadillo.it

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