Giornale di Bordo. Tra Lorenzo il Magnifico e Savonarola, 30anni dopo Mani Pulite

La categoria della morale e quella della politica, come insegna un quasi contemporaneo del signore di Firenze, non sempre possono coincidere

Una prima pagina del quotidiano giustizialista Repubblica

Quando l’inchiesta di Tangentopoli era agli albori, nella primavera del 1992, Firenze celebrava il quinto centenario della morte di Lorenzo il Magnifico, che, secondo i vecchi manuali di storia, segna insieme alla presa di Granada e alla scoperta dell’America il passaggio dal medioevo all’età moderna e l’inizio della decadenza italiana. A quell’epoca scrivevo corrispondenze da Firenze per il “Messaggero Veneto”, un quotidiano regionale del Friuli diretto da quel galantuomo di Vittorino Meloni, con una terza pagina di tutto rispetto su cui scrivevano personalità di spicco della cultura italiana, da Franco Cardini a Vittore Branca, da Domenico Fisichella, non ancora entrato in politica, a Francesco Perfetti. Ovviamente non perdevo occasione per farmi commissionare un servizio sull’argomento, non solo per motivi di borderò: le mostre e gli eventi si sprecavano e ognuno di essi era accompagnato da laute colazioni di lavoro, pranzi e cene, in piedi e spesso seduti e serviti. Come spesso succede, solo dopo una rivoluzione ci si accorge di che cosa significasse la douceur de vivre. Lo diceva, credo, Talleyrand a proposito dell’Ancien Régime prima dell’89, ma credo che tale considerazione valga in molti altri casi.

Siccome non ho l’indole del semplice cronista e la redattrice della pagina culturale esigeva articoli di una lunghezza oggi inconcepibile cominciai ad approfondire le mie conoscenze sul Magnifico, cercando di andare al di là della retorica dei comunicati stampa e dei miei studi universitari. Mi capitò così di fare una scoperta da cui non seppi trarre le debite conseguenze.

Savonarola

Lorenzo  e Savonarola

In punto di morte – lo testimonia anche il Poliziano – Lorenzo chiamò al suo capezzale Girolamo Savonarola, il predicatore che aveva voluto lui a Firenze come “dottore di logica” e che in seguito sarebbe divenuto suo acerrimo nemico. Cosa sia avvenuto effettivamente non si sa, ma un’antica tradizione e avallata in epoca risorgimentale da Pasquale Villari vuole che il frate domenicano gli avrebbe negato l’assoluzione. L’episodio è stato raffigurato in molti quadri di genere ottocenteschi, il più celebre dei quali è del grande Giovanni Fattori. I motivi della mancata assoluzione sarebbero stati tre: il furto dei beni del “monte delle doti”, con cui i genitori, versando una somma alla nascita di una bambina, le assicuravano un gruzzoletto al momento delle nozze (complice, spiace dirlo, l’alta mortalità perinatale e infantile), la “guerra dell’allume” contro Volterra e l’aver sottratto la libertà a Firenze. Quest’ultima accusa, tanto cara al Villari, era mera invenzione. Le prime due invece non erano prive di validità. In sostanza, quel sommo politico e protettore delle arti, che aveva assicurato a Firenze il massimo splendore, aveva anche lui approfittato del potere.

Lorenzo il Magnifico

Che cosa c’entra tutto questo con Tangentopoli, esplosa esattamente mezzo millennio dopo? E perché mi pento di non averne tratto le debite conseguenze? Perché la categoria della morale e quella della politica, come insegna un quasi contemporaneo del Magnifico, non sempre possono coincidere. E l’onesto Savonarola, che mandava i ragazzini a perquisire le abitazioni sequestrando anche splendidi dipinti ritenuti immorali per farne “roghi delle vanità” – salvo finire sul rogo anche lui, ma questo è un altro discorso, – fece molti più danni a Firenze dello spregiudicato Lorenzo de’ Medici, che salvò la pace in Italia e protesse le arti, anche se costrinse qualche ragazza a un acido zitellaggio.

L’Italia pre Tangentopoli

Certo, né Craxi, né Forlani, né Andreotti sono nemmeno lontanamente paragonabili a Lorenzo il Magnifico e alla loro corte non c’era un Leonardo o un Poliziano; ma nemmeno Di Pietro aveva la santità di Savonarola. Però l’Italia precedente Tangentopoli era una nazione in cui si viveva bene, la lira aveva un ottimo rapporto di cambio che consentiva viaggi all’estero a buon mercato, i servizi pubblici erano erogati a prezzi politici, la nostra classe dirigente godeva a livello internazionale di un rispetto che oggi nemmeno ci sogniamo, l’inflazione era stata fermata, come il terrorismo, il risparmio era tutelato con adeguati tassi d’interesse e nessuno avrebbe avuto paura di perdere il denaro depositato nelle banche. Banche le quali, oltre a pagare bene i propri dipendenti, riversavano larga parte degli utili nell’ambito del sociale o della promozione culturale. Nel mondo del lavoro, credo che un po’ tutti, a tutti i livelli – dal bancario al giornalista, dall’insegnante al trasportatore, dall’ingegnere al cameriere – guadagnassero di più e subissero ritmi meno stressanti. La spesa pubblica era elevata, anche per i costi dell’assistenzialismo, ma il deficit non è minore oggi, che si va in pensione più vicini ai settanta che ai sessanta e che spostarsiin treno da Firenze a Roma ha costi impensabili, la bolletta dell’acqua ci costringe a lavarci i denti tenendo il rubinetto chiuso e si paga più di un euro l’ora per lasciare l’auto in sosta (incustodita) anche in periferia, salvo dover lasciare la mancia anche al parcheggiatore abusivo. Una volta c’erano troppe auto blu; oggi ci sono troppe strisce blu.

La fine della guerra fredda

Certo, non tutti i mali da cui siamo afflitti oggi  possono essere ricondotti alla demolizione per via giudiziaria di un’intera classe politica. Alla base dei nostri problemi ci sono soprattutto la fine della guerra fredda, che pose termine al nostro ruolo strategico nella contrapposizione fra i blocchi, l’avvento di un turbocapitalismo spregiudicato, che non aveva più bisogno di mostrare la superiore qualità della way of life nel “mondo libero”, gli sviluppi di un percorso di unificazione europea che i nostri governanti non furono in grado di contrastare, anche perché non compresero i corollari pericolosi del trattato di Maastricht, e ovviamente un processo di globalizzazione dei mercati che oggi ci mostra i suoi aspetti peggiori. Ma la delegittimazione giudiziaria di una classe politica avotata dal popolo accrebbe la nostra fragilità dinanzi a un’offensiva politica, economica, valutaria senza precedenti.

Non sono un complottista, perché diffido di quella che Edward Carr chiamava la superstizione della causa unica, ma non posso fare a meno di constatare che operazione Mani Pulite, sciacallaggio dei mercati finanziari, svendita delle nostre industrie di Stato siano fenomeni quasi contemporanei, anche senza bisogno di evocare i fantasmi del Britannia. Post hoc propter hoc? Non saprei dire; resta il fatto che, mentre la Germania si unificava e cresceva grazie alla caduta del Muro, ma anche a un gigante come Kohl, da noi avevano successo le tesi di chi voleva dividerci in macroregioni, per renderci ancora più vulnerabili all’offensiva internazionale.

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Anch’io assistetti  in un primo tempo compiaciuto alla caduta di una classe dirigente in cui non mi ero riconosciuto e fui felice dei nuovi assetti politici seguiti alla discesa in campo di Berlusconi. Non mancava in me una punta di opportunismo e un certo spirito di rivalsa per l’emarginazione che la destra aveva subito all’epoca del cosiddetto arco costituzionale. Ho confessato questi stati d’animo nel 1997 in un pamphlet a sfondo autobiografico, oggi, credo, fuori commercio, visto che la casa editrice che lo pubblicò, la Loggia dei Lanzi, è da tempo chiusa. S’intitolava I tre anni che sconvolsero la destra (e, aggiungerei, anche il sottoscritto). Però mi sono accorto presto di essermi sbagliato, anche a mie spese. La demolizione del pentapartito ha aperto l’ingresso nell’area di governo dei postcomunisti, col pretesto che, essendosi sgretolata l’Unione Sovietica, non esistevano più i presupposti per la loro esclusione: un po’ come se, caduta la Germania nazista, i postfascisti italiani fossero stati invitati al governo. Sia ben chiaro: la classe dirigente socialista aveva commesso molti gravi errori – dall’ostracismo al nucleare, di cui facciamo in questi giorni le spese, alla legge Martelli,- e, come spesso succede, le seduzioni del potere avevano fatto circondare il segretario del Psi di una pletora di rampanti che spesso possedevano tutte le qualità del cane tranne la fedeltà. Ma resto convinto che gli Andreotti, i Forlani, i Craxu. se un colpo di Stato giudiziario non li avesse posti fuori gioco, non avrebbero lasciato commissariare l’Italia.

La “fortuna del Msi

Certo, l’essere passati indenni da Tangentopoli ha assicurato agli eredi del Movimento sociale una rendita elettorale insperata. E per alcuni anni – non molti: in tutto otto negli ultimi trenta – l’operazione Mani Pulite ha consentito al “polo escluso” della destra di sedere al governo, ma senza lasciare un’impronta duratura non solo nell’ambito culturale (sarebbe stato chiedere troppo), ma nell’apparato statale e parastatale. Tanto che, come ha osservato qualche anno fa Galli Della Loggia, è il Pd il vero partito dello Stato, che finisce per governare anche quando, come nel 2018, perde le elezioni. I ministri passano, i capi di gabinetto restano.

C’è però un altro motivo che mi spinge a considerare un evento rovinoso la destrutturazione della vecchia classe dirigente, Pci escluso, seguita a Tangentopoli. Nel corso degli anni Ottanta l’Italia stava operando una sia pur lenta e sofferta metabolizzazione della propria memoria storica, con particolare riferimento all’esperienza del Ventennio. Il fenomeno aveva senz’altro radici culturali, grazie all’impegno di storici, come De Felice, provenienti per altro da sinistra, ma aveva riscontri anche sul terreno politico. La scelta, nel 1983, del presidente del Consiglio incaricato Craxi di aprire le consultazioni anche al Msi, rompendo con la logica dell’arco costituzionale, le sue successive consultazioni con Almirante due anni dopo in vista dell’elezione del presidente della Repubblica, consultazioni che scandalizzarono molti, compreso il futuro capo dello Stato Napolitano, la stagione del socialismo tricolore, ricordata a ragione anche da Del Ninno, segnarono a tutti gli effetti la fine dell’antifascismo militante e sicofante che aveva caratterizzato gli anni Settanta. Si stavano ponendo le premesse per una riconciliazione nazionale e una storicizzazione del fascismo che paradossalmente proprio l’ingresso nell’area governativa di un partito post-fascista avrebbe bruscamente reciso.

I ragazzi del Msi e Craxi

I ragazzi del Fronte della Gioventù che nel 1993 lapidarono di monetine l’auto di Craxi davanti all’hotel Raphael non potevano sapere che il “cinghialone” contro cui si accanivano era l’uomo che aveva rotto dieci anni prima la conventio ad excludendum contro il Msi, né potevano capire che  sarebbe stato l’unico politico in grado di trattare l’ingresso nell’Unione Europea in modo vantaggioso per l’Italia, nonché, grazie anche alla sua buona dose di arroganza, di rivendicare i diritti della politica sull’economia. L’avrebbero dovuto sapere e potuto capire i loro fratelli maggiori che organizzarono la manifestazione; ma si sa, la gratitudine non è molto comune in politica, e nemmeno nella vita.

Craxi costretto all’esilio

Resta il fatto che Craxi non fu costretto all’esilio perché aveva ottenuto finanziamenti illeciti per il suo partito, ma perché per primo aveva rotto la sudditanza psicologica del Psi nei confronti del Pci, perché aveva osato rinfacciare ai comunisti – come ricordò Mughini nel suo coraggioso pamphlet Compagni addio – il Muro di Berlino,  perché a Marx aveva contrapposto Proudhon, perché aveva, nel discorso alla Camera del 3 luglio 1992, invitato chi non avesse mai ricevuto tangenti a farsi avanti. Nessuno lo fece, ma tutti in cuor loro scommisero che la tempesta di tangentopoli si sarebbe scaricata solo su di lui, come un temporale estivo. Persero la scommessa, ma a pensarci bene a perdere siamo stati anche noi.

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Enrico Nistri

Enrico Nistri su Barbadillo.it

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