L’ipnotico e disperato “Intermezzo romano” di Drieu

Aspis porta nelle librerie un romanzo dello scrittore fascista francese che si può ben definire «un piccolo gioiello di struggente bellezza»

Intermezzo romano di Drieu

Intermezzo romano, il romanzo breve che Drieu scrisse nel 1943 e che fu pubblicato in un volume postumo, Histoires dèplaisantes, nel 1963 insieme ad altri testi, tra cui un altro romanzo breve, lo splendido Diario di un delicato, è unanimemente giudicato dalla critica tra i suoi scritti migliori. Per Marco Settimini, che per le edizioni Aspis ha curato e tradotto per la prima volta in italiano questo romanzo, rimasto peraltro incompiuto, esso è «un piccolo gioiello di struggente bellezza», è «uno dei vertici della produzione narrativa di Drieu». Per Moreno Marchi Intermezzo romano è «perfettamente, mirabilmente riuscito». E di «prosa ipnotica», di «pensieri stupendi e disperati» ci parla Camillo Langone in una recente recensione su Il foglio, benché fraintenda del tutto la posizione qui espressa da Drieu verso Mussolini e il fascismo. 

La trama

Ambientato prevalentemente nella Roma del 1926 e scritto in prima persona – formula raramente usata dallo scrittore francese che, indulgendo all’autobiografismo, preferiva mascherarsi dietro lo schermo dei personaggi – è incentrato sulla appassionata e fugace relazione del narratore con la bella contessa ungherese Edwige Fahvèsy, conosciuta in una sala da ballo a Parigi e seguita prima a Nizza, poi a Roma. «Lo scrittore – scrive Moreno Marchi – è reduce dalla dolorosa rottura con l’americana Constance Wash, forse la donna che abbia amato più di ogni altra. In questo testo egli sembra compiere un passo indietro nella sua tematica narrativa, evolutasi e perfezionatasi intanto col tempo. Si ritorna ovvero ai classici, inconfondibili Gille/s, in modo particolare a quello di Drôle de voyage: a quel raffinato amante di donne belle e ricche, all’indolente sognatore, sempre in bilico sul nulla, indifferente a tutto ed a tutti eppure intimamente tanto indifeso, delicato, sensibile che Drieu La Rochelle sempre fu».

Biografia e visione del mondo

Nel racconto si mescolano sapientemente biografia intima e visione del mondo: c’è da un lato il racconto della relazione dello scrittore con la contessa italiana Cora Caetani insieme all’analisi tormentata e coinvolgente dei suoi amori e disamori; dall’altro ci sono le meditazioni sulla vita e sulla morte, sulla politica, sulla decadenza, che, come sovente accade nella narrativa di Drieu, vanno ad interrompere il filo conduttore del racconto. E qui prevale, come nota il curatore, un tono «delicato, distaccato, oraziano, meditativo, e torna così a essere il “giovane europeo” che sul fronte leggeva Pascal e Nietzsche, ma che è ora vicino a ciò che il poeta [Orazio] definiva l’ultima linea rerum».   

Scrive magnificamente Drieu:

«La debolezza dell’uomo è infinita, ma è anche vero che si gode dell’io soltanto per contrasto, e solo il sé non ha bisogno che di se stesso».

In bilico tra pulsioni erotiche e desiderio di fuga, tra solitudine e voglia di socialità, tra disordine interiore e ricerca del divino, lo scrittore si disvela pienamente in questo romanzo scritto di getto, quasi con noncuranza, dove l’incompiutezza, al pari dell’incompiuta di Schubert o della Santissima Trinità di Venosa, anziché diminuire, accresce il fascino dell’opera e dove gli ultimi due o tre capitoli sembrano rimandare a finali diversi da soppesare in vista di una stesura definitiva. 

Citiamo spigolando qua e là nel testo: 

«Dio, quanto ho amato i seni delle donne nel corso della mia vita, che culto estenuante e insaziabile gli ho votato! Oggetti meravigliosi sui quali non si ha mai il tempo di soffermarsi abbastanza a lungo per via della fretta del desiderio, di quella semindifferenza che ne consegue e che mantiene nel torpore del proprio soddisfacimento».

 

«Amavo con diletto selvaggio ed eterno la mia solitudine, ma la partenza di Edwige per l’Ungheria dopo quella di Dora per l’America finiva col desolarmi il cuore come una cicatrice superficiale che va ad aggiungersi a una cicatrice profonda».

«Indubbiamente in quel momento ero quasi felice. Ecco d’altra parte una parola del tutto impropria, perché per me non si è mai trattato di felicità […] La felicità è qualcosa di troppo vasto e troppo vago, un’armonia universale che appartiene all’ordine divino più che umano. Ho scelto la parola godimento per indicare ciò che ho voluto e che ho avuto. Non ho goduto di me stesso nella solitudine del mio cuore. Sono poco attaccato a un me, anche se nei miei momenti di stizza o d’invidia può sembrare il contrario. Ho goduto della vita nel passaggio della mia coscienza».

«Mi toccava guardare quegli umani che non sapevano, che non avevano l’aria di sapere che la morte è nella vita e che l’amore non fa la sua comparsa nel cuore se non per corroderlo, per distruggerlo, o meglio per affermarvi il vuoto beante. A quei tempi ero molto lontano dal divino. Il divino mi travagliava senza mostrarsi, e se fossi morto allora sarei stato uno di quegli innumerevoli frutti che cadono guasti dall’albero». 

Culto della bellezza

Al disprezzo per una borghesia che stancamente ripete i suoi vuoti riti, alla percezione di una decadenza ineludibile, fa da contraltare in Drieu il culto della forza e della bellezza, quella forza e quella bellezza che egli ritrova nelle rovine e nei giardini di Roma: «Fui estremamente sedotto da Roma […] Roma  mi parve un luogo d’eleganza  quasi quanto Firenze e più di Venezia […] Dicendo questa cosa riabilitavo quella parola, “eleganza”, che in bocca ai borghesi ha assunto un significato odiosamente limitato. […] Per quanto ci si sforzi, i miti dell’industria e della democrazia non riescono ad abbrutire una città italiana quanto una città di altri paesi. Là c’è qualcosa che resiste, una pietra troppo bella e forte, una presenza irriducibile. Così tanti palazzi costruiti con roccia e genio non possono venir cancellati in un istante e sostituiti da quella paccottiglia che è, come si suol dire, ogni recente costruzione umana. E che importa l’umanità che circola tra le pietre. L’Italia, la Grecia e la Francia non hanno più bisogno degli italiani, dei greci e dei francesi per vivere; vivono in cielo e in poche rovine immarcescibili». 

Allo scrittore francese, che coglie distintamente il contrasto tra «il silenzio del Palatino e la chiacchiera mondana»,  non interessano le rovine come ad un turista, bensì quell’idea di grandezza politica che esse stanno a significare. Raccontando i luoghi e la sua storia d’amore il narratore non poteva che gettare uno sguardo distratto, ma carico di simpatia, nei confronti del fascismo e di Mussolini: «In quel periodo Mussolini non si era ancora installato a palazzo Venezia, e mi avevano mostrato la finestra del suo studio, al secondo piano, se non erro. Una luce filtrava attraverso le veneziane: di sicuro era là dentro. Immaginai un uomo solo in un ufficio. Per assimilazione alla mia solitudine, immaginai la sua. Curiosamente non mi parve diversa dalla mia. […] Eravamo entrambi due solitari, due sognatori». 

Va infine rilevato che il testo edito da Aspis è arricchito, per un’evidente affinità tematica, da altri due testi: una sorta di confessione, Appunti per un romanzo sulla sessualità, dove Drieu dà conto con disarmante sincerità degli «eventi che più hanno dato forma alla sua vita erotica e sentimentale» (Marco Settimini); e un racconto, La voce, originariamente pubblicato nel 1934 in una raccolta di undici racconti intitolata Diario di un uomo tradito, pubblicato per la prima volta in italiano nel 2007 dalle edizioni di “Via del vento” su sollecitazione del sottoscritto con la bella traduzione e postfazione di Massimo Del Pizzo.

*”Intermezzo romano” di Drieu La Rochelle (euro 22, Aspis)

Sandro Marano

Sandro Marano su Barbadillo.it

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