Il commento. Le due anime (in lotta) e la formula fusionista della Lega

Ma solo se rimarrà fedele al suo dna originario essa avrà speranza di non morire democristiana o governista a tutti i costi, come probabilmente ha potuto far credere in particolari momenti, oppure arroccata su posizioni aprioristiche

Lega Salvini premier

Borghi Salvini e Giorgetti

Correva l’anno 2012 quando per i tipi della Sperling & Kupfer uscì il libro-manifesto dell’allora neosegretario federale della Lega Nord, Roberto Maroni. Lo scandalo Belsito aveva dilaniato la classe dirigente del Carroccio, costringendo Bossi e il “cerchio magico” alle dimissioni. L’ex ministro, storico dirigente della Lega e amico personale del Senatùr, decise così di affidare alla potenza delle parole ed alla capacità dirompente dei simboli, il desiderio di ricostruire l’immaginario leghista deluso e frastornato dalle inchieste della magistratura. Il mio Nord. Il sogno dei nuovi barbari, costituisce un tentativo di offrire alla Lega un orizzonte che vada oltre le pastoie dei salotti romani, per ritornare allo spirito delle origini. 

«“Prima il Nord” è la soluzione – scrive Maroni, passando poi a spiegare nel dettaglio di cosa si tratti –. È il progetto egemone della Lega che presidia il territorio e governa le istituzioni del Nord. E da queste roccaforti conduce la guerra a Roma e a Bruxelles: il Nord deve essere tanto forte da imporsi e dettare le condizioni per trovare un accordo (se possibile) oppure per salvarsi in altro modo» (p. 18). 

Per fare ciò Maroni disegnava una tattica alternativa a quella attuata sino ad allora dal movimento leghista. «Bisogna passare dal tentativo di convincere Berlusconi, il PDL, Alfano, Miccichè e compagnia bella che il federalismo è una cosa buona per il Sud, al costringere l’intero sistema politico e istituzionale ad accettare la soluzione della questione settentrionale ideata dalla Lega, vale a dire una nuova organizzazione dello Stato che comprenda l’Euroregione del Nord» (pp. 18-19). Il segretario leghista si diceva convinto della necessità di cambiare metodo. Bisognava infatti far valere il peso dei consensi poiché è necessario, secondo Maroni, passare da un rapporto negoziale ad un rapporto di forza. «Il che implica aumentare il radicamento sul territorio attraverso la conquista di comuni, province e regioni. Per poi lanciare la sfida alle stelle» (Ibidem). 

L’armamentario caro ai nuovi “barbari sognanti” passava da alcune delle parole chiave che hanno storicamente contrassegnato il DNA della formazione fondata da Umberto Bossi. “Radicamento”, “territorio”, “egemonia” concetti predicati ed applicati metodicamente da una classe dirigente di provenienza politica eterogenea che guardava oltre le ideologie. Nel varesotto e dintorni, infatti, il muro di Berlino è crollato almeno un decennio prima che in Germania. Era stato Bruno Salvadori, giovane politico del movimento autonomista valdostano, ad illustrare a Bossi il nuovo orizzonte ideale destinato ad incidere nella vita delle persone una volta morte le ideologie. Quasi ad indicare una scala di priorità, dal cerchio più piccolo a quello più grande, esso comprendeva: la difesa territoriale, l’autodeterminazione, la costruzione di una Europa dei popoli.

Roberto Maroni, nel ripercorrere i prodromi storico-ideali della Lega, intendeva riaffermare lo spirito delle origini e indicare la strategia futura all’insegna di ciò che furono e di ciò che intendevano essere. In una realtà nuova come quella in cui ci si trova a vivere all’alba del XXI secolo, stretti tra le tenaglie di Roma e Bruxelles, il modello a cui ispirarsi, secondo l’ex ministro, è la Baviera. «Per la Lega penso al modello della CSU, l’Unione Cristiano-Sociale egemone in Baviera, che sento affine – osserva Maroni. Il modello catalano è affascinante ma non imitabile, perché possiede una Koinè etnico-linguistico che non esiste nel nostro Nord. Il modello politico della CSU è decisamente più vicino a noi, perché incardinato in una regione ad alta produttività, inserita all’interno di un sistema federale, senza connotazioni linguistiche o etniche. – concludendo, dunque – In poche parole, la Baviera assomiglia all’insieme delle principali regioni del Nord Italia. Ecco perché penso che la Lega possa diventare la CSU del Nord e imporre le sue condizioni: al Sud, a Roma, ma anche nei confronti del Nord Europa, ovvero a Bruxelles» (pp. 17-18).

Queste parole offrono un’immagine della Lega molto netta, con una strategia che guardava al futuro senza abbandonare valori e pathos delle origini. Cosa è cambiato da allora? Nel 2013, Roberto Maroni viene eletto governatore della Regione Lombardia, lasciando la carica di segretario federale della Lega al suo allievo Matteo Salvini. Il giovane esponente lombardo incarna alla perfezione il pragmatismo tipico leghista unito al radicamento territoriale. In soli cinque anni il Carroccio passa dal 4 percento dei consensi ottenuti alle Politiche del 2013 al 17 percento dei suffragi del 2018, raggiungendo un record storico per la Lega. L’anno dopo, alle elezioni europee del 2019, la formazione leghista ottiene il 33 percento dei consensi diventando il primo partito italiano e il riferimento europeo del cosiddetto mondo sovranista.

Le ragioni del successo sono da ascrivere a due scelte strategiche molto chiare. Estensione del progetto leghista all’Italia intera e contestuale cambio di linea politica. Per poter aspirare ad essere “primo”, il Nord deve essere in grado di correre senza lacci e lacciuoli. Roma deve essere conquistata e difesa, e con essa l’intero stivale. Soltanto un’Italia realmente sovrana è infatti in grado di affrontare con decisione i tecnocrati di Bruxelles. Non vengono dunque abbandonati i temi cari alla formazione bossiana, ma integrati in una cornice più ampia tenendo conto delle sfide imposte dalle contingenze politiche. L’alleanza stretta con il Front National guidato da Marine Le Pen e con le restanti formazioni sovraniste d’Europa mira dunque a creare un fronte europeo critico verso l’Unione e lo strumento che lo tiene insieme: la moneta unica. La battaglia in Europa si salda così in maniera organica a quella da portare avanti in patria.

La partecipazione al governo Conte I (giugno 2018-settembre 2019) assieme al M5S segna la “messa alla prova” della nuova Lega disegnata da Salvini. Dopo aver forzato la mano con alcune scelte bocciate dal presidente della Repubblica, quali la proposta dell’economista Paolo Savona a capo del Ministero di Via Venti Settembre, essa spinge a che il presidente del Consiglio Conte ottenga il via libera dalla Commissione europea per l’estensione del deficit al 2,04 percento, gettando così le premesse per l’abolizione della Legge Fornero sulle pensioni e l’introduzione di Quota 100.

Le richieste di maggiore autonomia regionale, intanto, continuano ad essere portate avanti da governatori pluriconfermati come Luca Zaia, il quale assieme ad Attilio Fontana e a Massimiliano Fedriga, rispettivamente governatori di Lombardia e Friuli-Venezia Giulia, incarna l’anima originaria della Lega rispetto a tematiche simbolo quali la prossimità territoriale e la difesa degli interessi dei ceti medio-bassi e della piccola imprenditoria vessati da un fisco opprimente. La linea dei cosiddetti governatori procede a bassa intensità trovando una sponda al Governo nel vicesegretario leghista e ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti. Dopo l’esperienza al governo con i grillini, il vicesegretario leghista ha assunto i panni di regista e ha lavorato a stretto giro affinché la Lega partecipasse all’attuale esecutivo guidato da Mario Draghi (febbraio 2021). Dall’ex presidente della Bce è stato nominato ministro, con il ruolo di garante dell’impegno assuntosi dal Carroccio.

Questa breve digressione storica serviva a ricapitolare gli avvenimenti più importanti accaduti nella Lega, per poter essere in grado di comprendere quelli attuali e tentare di dirimere alcuni equivoci. La pandemia di Covid-19 esplosa ad inizio 2020 e non ancora conclusasi, ha reso spesso manifesta la divergenza di vedute tra i governatori e la linea politica del segretario federale Matteo Salvini. Notisti e commentatori politici hanno dunque osservato come la formazione di via Bellerio sia segnata al suo interno da una divisione che denota la debolezza interna. Fragilità constatagli l’accusa di incoerenza per l’appoggio al governo europeista di Mario Draghi, insieme agli ex alleati del M5S ed al centrosinistra; resa oltretutto ancor più acuta ed incomprensibile dal fatto che nello stesso tempo, al Parlamento europeo, l’alleanza con la formazione di Marine Le Pen e la vicinanza ai governi ungherese e polacco, fortemente critici verso Bruxelles, continui ad essere ben saldo. Le elezioni amministrative svoltesi il 3 e il 4 ottobre di quest’anno avrebbe, quindi, secondo la maggior parte degli analisti, ratificato tale debolezza, mostrando i difetti e l’inconsistenza della linea politica.

E se, invece, risulti essere proprio tale linea bifronte ad essere il valore aggiunto della Lega? In una intervista rilasciata al quotidiano La Stampa, una settimana prima delle amministrative, Giorgetti ha osservato che «la Lega non è un partito politico come gli altri. Se qualcuno di quelli che anche adesso arriva […] entra nella Lega pensando che sia un partito come gli altri, ha sbagliato a capire perché la Lega è un’altra cosa». A tutti coloro i quali accusano il movimento di avere divisioni al suo interno, il ministro risponde con queste parole: «Non esiste la Lega di Giorgetti, ma la Lega che […] è un gruppo di persone che amano la propria terra e si mette assieme per fare il bene della propria gente. Questa è la definizione di Lega» (La Stampa, 25/09/2021).

L’essenza della Lega è quella di gestire con pragmatismo le sfide che interessano la vita dei cittadini, avendo come bussola valoriale la difesa del territorio e la salvaguardia delle istanze del ceto produttivo: dal cosiddetto popolo delle partite Iva al tessuto della medio-piccola imprenditoria. Il contrasto all’immigrazione clandestina si salda alla tutela dell’agricoltura e alla protezione delle campagne. Garantire la sicurezza nelle periferie cittadine, curare il decoro dei piccoli paesi rivieraschi o di montagna, salvaguardando così l’essenza italiana, fatta di piccoli borghi ed una miriade di comuni, ha da sempre rappresentato per il Carroccio un obiettivo su cui investire, per aggredire il degrado e stare dalla parte degli ultimi in maniera non ideologica, ma pragmatica. A questo allude Giancarlo Giorgetti quando afferma che la Lega incarna qualcosa di diverso e a suo modo peculiare nel panorama politico italiano, sin dalle origini.

Note sono del resto le dichiarazioni dell’ex presidente del Consiglio D’Alema, quando affermò a Il Manifesto ciò che ha ribadito in una intervista più recente rilasciata al Corriere della Sera, ovvero che la Lega è «una costola del movimento operaio» poiché «gli operai votavano Lega» (Corriere della Sera, 23/06/2019). Aspetto mai negato da Bossi e dallo stesso Maroni, il quale si è spinto anzi a dire che il Carroccio è l’unica formazione che si ispira «a chi sapeva cosa erano i partiti, cioè a Lenin» laddove «c’è uno che comanda e gli altri che danno esecuzione al progetto». A questo proposito, è emblematico ricordare che quando negli anni Novanta Berlusconi introdusse in Italia il modello partitico di tipo anglosassone (“partito leggero”), che guardava alla tipologia del «comitato elettorale come avviene negli Stati Uniti», osservava Maroni, la dirigenza leghista investiva invece i suoi sforzi nella costruzione di un «partito pesante», capace di mobilitare donne e uomini attorno a parole d’ordine e di strutturarsi capillarmente sul territorio. Parliamo di una formazione politica, insisteva l’ex ministro, che al di là del folklore sul quale spesso si attarda una parte consistente dei media, è capace di esprimere una struttura politica di livello, composta da centinaia di giovani amministratori locali, governatori esperti ed una rete di militanza ed associazionismo notevole. 

Il fulcro ideale della Lega è ciò che gli altri hanno abbandonato: il territorio. «La territorialità non è il limite della Lega, ma la sua forza – osservava Maroni, a margine della presentazione del libro Leghiste (Marsilio, 2010) di Cristina Giudici. […] A differenza del Pci che aveva un progetto ideologico fondato sulla società divisa in classi – spiegava il ministro – noi siamo nati dopo la caduta del muro di Berlino, siamo post-ideologici e ci organizziamo su un asse verticale Nord-Sud e non orizzontale destra-sinistra» (Blitz Quotidiano, 23/06/2010).

Il binomio Nord-Sud è stato da Matteo Salvini intelligentemente reinterpretato attraverso dicotomie nuove che non negano, bensì integrano l’asse valoriale descritto da Maroni. Esse coinvolgono il rapporto centro-periferia per convergere verso lo scontro establishment-popolo, proiezione della grande sfida che si gioca sia in campo nazionale che in ottica europea. D’altra parte però, la presenza sul territorio e l’ascolto delle esigenze dei cittadini impongono una linea politica che esige concretezza. Concretezza da attuare con pragmatismo ed impegno, impedendo tuttavia la tentazione democristiana del riflusso nel gorgo clientelare “centralista”, emblema dei “palazzi” di Roma e delle istituzioni dispendiose del meridione. 

La vera sfida che impegna l’azione politica leghista si situa esattamente in questo snodo fondamentale. V’è l’impressione tuttavia che pochi analisti politici abbiano realmente compreso questa dinamica, la quale implica una lettura profonda di cosa sia la Lega e di cosa abbia rappresentato nel panorama politico italiano. Soltanto alla luce di una prospettiva simile risulta possibile leggere ed eventualmente prevedere le sfide che la classe politica leghista si appresta ad affrontare. Chi si ostina a veder in guerra perenne due leghe, quella di lotta e quella di governo, rischia di non comprendere la posta complessiva che vi è in gioco. Le due leghe esistono, come è altrettanto reale che vi sia talvolta una contrapposizione fra l’ala dei governatori e quella che è al Governo a Roma. Ma l’una serve all’altra in quanto entrambe, a loro volta, servono il progetto complessivo leghista che ha due terminali di riferimento: uno locale ed uno nazionale. Stando all’esempio europeo, il modello che guarda alla CSU bavarese ha necessariamente bisogno dell’altro che dialoga con il Rassemblement National di Marine Le Pen. Rivendicare l’autonomia fiscale e guardare al modello federale, infatti, non solo non confligge con l’essere alleati in Europa con le formazioni “centraliste” e sovraniste, ma costituisce la premessa indispensabile affinché il Nord e l’Italia intera possano riavere quegli spazi di libertà che consentano loro di essere padroni del proprio futuro.

Qualche giorno fa il governatore del Veneto Luca Zaia ha risposto così ad un giornalista che gli chiedeva se la linea politica della Lega avesse necessità di essere rivista: «Penso […] che la madre di tutte le battaglie sarà rappresentata da come arriveremo alle Politiche. E qui le componenti saranno due: da una parte l’identità e dall’altra il fatto di essere una forza di governo. Che si sia o non si sia a Palazzo Chigi, la Lega è a pieno titolo forza di governo visto e considerato che governa gran parte delle regioni più importanti d’Italia. Il punto è trovare un giusto equilibro tra la Lega di lotta e la Lega di governo, due componenti che è fondamentale che ci siano». Alla domanda successiva, egli è ancor più esplicito: «Tutti noi siamo chiamati a fare la nostra piccola, democratica rivoluzione. O la si fa facendo militanza politica pura o governando. Il militante invoca autonomia come progetto politico, l’amministratore della Lega fa l’autonomia». (Il Gazzettino, 7/10/2021).

Il “fare” attiene al pragmatismo dei governatori, a chi ha responsabilità istituzionali, ma esso serve l’obiettivo politico indicato dal movimento. La tattica impiegata può essere, e probabilmente ha ragione di essere differente poiché gli equilibri locali spesso divergono da quelli nazionali, ma entrambi hanno la necessità di convergere verso un progetto unitario. Il ruolo che la Lega sarà in grado di esercitare nel centrodestra passa da questa rinnovata consapevolezza.

«Forza Italia, quando era baricentrica con i suoi valori e il suo peso del 25-30 per cento, era riuscita ad “istituzionalizzare” la Lega e il Msi, poi An. Ma se l’egemonia sul centrodestra ce l’hanno Fratelli d’Italia o la Lega, la coalizione è inevitabilmente perdente» ha osservato il ministro Brunetta a la Repubblica. «O meglio: – ha poi continuato – puoi anche vincere, ma non vieni percepito come una forza di governo». Da Palermo Salvini ha risposto che di qui alle Politiche la Lega si appresta a ricoprire il ruolo di federatore del centrodestra. La linea delineata da Brunetta confligge inevitabilmente con quella di Salvini e della Lega. Brunetta invita infatti i partiti a ritornare «ai fondamentali, alle grandi famiglie politiche che hanno costruito l’Europa e le sue istituzioni nel dopoguerra: la famiglia dei popolari, quella liberale e quella socialista. Queste tre culture politiche adesso possono ricostruire l’Italia del futuro. Con Draghi» (la Repubblica, 22/10/2021).

 La Lega non ha famiglie politiche poiché nasce, come ricordato da Maroni, post-ideologico, ma non per questo rinuncia a proporre l’asse politico e concreto del futuro, su cui si giocherà il destino stesso dell’Europa, cioè: l’attenzione ai territori ed alle istanze del popolo. La sfida della Lega risiederà nella capacità di federare ma su basi diverse da quelle proposte da Brunetta, pena l’appiattimento verso un centro indefinito e vagamente rappresentato. Spetterà ad essa operare nuove sintesi prendendo a modello operazioni politiche europee, come ad esempio quella formata dal giovane cancelliere austriaco Sebastian Kurz, durante il suo primo mandato (dicembre 2018-maggio 2019), e che ha visto un’alleanza di governo fra il Partito Popolare e il Partito della Libertà. Il “modello Kurz” offre il vantaggio di proporre ai moderati un’offerta politica realista ma robusta allo stesso tempo, con la determinazione di rivendicare maggiore spazio di confronto e di contrattazione su tematiche chiave quali, ad esempio, l’immigrazione e il rapporto deficit/pil. Inoltre, consentirebbe ai governatori di continuare con più agilità l’esperienza di governo dei territori seguendo il modello incarnato dalla CSU bavarese. La Lega infatti ha una prospettiva solo se è e resta poliedrica, pena l’appiattimento all’interno di contenitori politici che non sono mai stati suoi. Ancora una volta deve essere esclusivamente la difesa del territorio e le istanze di coloro che lo vivono a dettare la linea politica del movimento. Fermo restando l’humus socialmente conservatore del popolo italiano che la formazione leghista ha storicamente intercettato e che costituisce il contraltare logico e genuino di una politica non ideologica né utopista, ma saldamente ancorata alla realtà e al diritto naturale. La difesa delle radici cristiane dell’Europa, il contrasto a politiche che disincentivano la creazione delle famiglie e che sponsorizzano la cultura della morte, l’opposizione all’ingresso della Turchia nell’Unione europea, la ferma contrarietà alla costruzione di moschee sul territorio italiano sono tutte tematiche che dimostrano l’impegno della Lega su questo fronte. Solo se rimarrà fedele al suo dna originario essa avrà speranza di non morire democristiana o governista a tutti i costi, come probabilmente ha potuto far credere in particolari momenti, oppure arroccata su posizioni aprioristiche.

Diego Benedetto Panetta

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