Alcuni libri, quelli che illuminano problemi teorici ed esigenze esistenziali già presenti in noi, si leggono d’un sol fiato. Usciamo da una lettura siffatta, che ci ha appassionato non poco. Ci riferiamo a un testo capitale del filosofo-contadino francese Gustave Thibon, Nietzsche o il declino dello spirito, comparso nel catalogo di Iduna editrice (per ordini: associazione.iduna@gmail.com, pp. 299, euro 25,00). Il testo è accompagnato dalla prefazione di Massimo Maraviglia, mirata a contestualizzare la figura dell’autore nel panorama culturale del Novecento e tesa a chiarificare il paradossale rapporto che legò quest’ultimo al pensatore dell’Oltreuomo. In prima istanza, ci pare di poter asserire che il volume mostra come le scelte intellettuali divergenti dei due non abbiano pesato affatto sull’esegesi compiuta dal francese. Il cattolico Thibon coglie nel filosofo tedesco un tratto mistico, totalmente trascurato, invece, da interpreti vicini alle prospettive nietzschiane.
Naturalmente, e lo si vedrà, ci riferiamo ad una sorta di mistica negativa che avrebbe agito, quale polo attrattivo, sul teorico dell’eterno ritorno. Per entrare nel cuore vitale del nietzschianesimo, Thibon presenta il dramma intimo vissuto dall’uomo Nietzsche, in quanto, fichtianamente, ha contezza che dietro ogni filosofia c’è un uomo, con le proprie idiosincrasie, passioni e un dato tratto caratteriale. Anzi, esplicitamente, confessa «Noi pensiamo […] che in Nietzsche la dottrina sia sempre determinata dalle passioni e dalle reazioni dell’uomo» (p. 9). Nietzsche non aveva forse sostenuto che: «non esistono verità, fuorché quelle individuali»? (p. 9). A causa dell’attenzione posta sull’uomo, sul suo spirito convulsamente teso all’infinito, il volume che presentiamo viene meno alla “lettera” del pensatore di Röcken, ma ne rintraccia la sostanza. Tale metodo ermeneutico è conseguenza delle scelte esistenziali messe in atto da Thibon. Figlio di contadini, allo scoppio del Primo conflitto mondiale, fu costretto, per il richiamo al fronte del padre, a sostituirlo nel lavoro dei campi.
La natura divenne la sua prima maestra di saggezza. Ne osservò, apprezzandola, la dimensione ciclica, indicante all’uomo la via all’eterno. Trasse, dalla vita rurale trascorsa nell’avita magione di Saint-Marcel-d’Ardeche, cui si dedicò definitivamente dopo un periodo di vagabondaggi e viaggi, l’idea che il limite è il carattere distintivo, invalicabile, della vita. Studio e letture occupavano, assieme al lavoro dei campi, le sue giornate. Da ciò l’epiteto, che lo ha accompagnato fino agli ultimi giorni, di filosofo-contadino. Fu sodale del primo Maritain, ospitò, presso di sé, nel 1941, Simone Weil, dalla quale apprese, come ricorda il prefatore, che: «L’uomo desidera sempre qualcosa oltre l’esistere» (p. III). Autodidatta d’eccezione, su di lui agì in profondità il magistero di Léon Bloy, che lo rese “cristiano estremo”: «Sono estremista per la mia attrazione per la teologia negativa, la mistica della notte, il “Dio senza base né appoggio” che era quello di S. Giovanni della Croce ed è il mio oggi» (p. II). Tale tendenza spirituale gli fece incontrare anche Gabriel Marcel: questi aveva ben compreso il carattere enigmatico dell’esistere, in quanto aveva contezza della: «differenza fondamentale tra il pensiero oggettivante-scientifico […] e un’ontologia consapevole che vi vede (nella vita) essenzialmente il mistero» (p. III).
La critica thiboniana della modernità si costituisce su una constatazione che, ai suoi occhi, pareva avere evidenza lapalissiana. L’epoca attuale ha: «il cielo chiuso e la fogna spalancata» (p. III). La società contemporanea ha tratto catagogico, in quanto in essa la vita è stata privata dell’essenza, della propria ragion d’essere. Thibon, proprio come Nietzsche, ebbe in animo di ridare senso al mondo. I due hanno seguito vie diverse: la cristiana il primo, la via del ritorno all’Ellade, il secondo. Eppure, entrambi hanno condiviso un dato esistenziale comune: il volersi spingere oltre il semplice esistere, sensibili al richiamo dell’infinito e dell’eterno. Il francese è, anzi, affascinato dalla sete d’assoluto che si evince dalle pagine del tedesco. In esse, gli pare di avvertire un “presentimento” del divino, che presto in Nietzsche verrà meno, a causa dell’insorgere orgoglioso dell’Io. Per Thibon, il “si alla Terra” del pensatore dell’Oltreuomo finisce per incontrare il Nulla, non si apre al Fondamento: «Il mondo del divenire, totalmente permeato dal nulla, Nietzsche non lo vuole più come ponte gettato verso la sponda divina, ma come affascinante meta di ogni destino» (p. 277).
In ogni caso, per Thibon l’anticristianesimo nietzschiano è compensato dalla sua fascinazione di Dio. Opportunamente, Maraviglia ricorda il giudizio espresso da Karl Löwith su Nietzsche. Il discepolo di Heidegger interpreta la “volontà di potenza” quale volontà di futuro, ultima manifestazione della teologia della storia cristiana, ormai definitivamente immanentizzata. Al contrario, la civiltà antica, quella ellenica in particolare, aveva al proprio centro la physis, la natura, con i suoi cicli eterni, il sorgere e il perire degli enti, dai quali il primato della volontà era del tutto assente. L’aspra critica al moralismo, vale a dire la pedagogia nietzschiana dell’anti-morale, la tabula rasa degli pseudo-valori del mondo borghese, avrebbero potuto indurre nel pensatore tedesco quel denudamento dell’Io, realizzato dai mistici cristiani, in particolare da S. Giovanni della Croce, a cui Thibon dedica la terza parte del volume. Nietzsche e Giovanni della Croce: «ebbero l’animo dell’adoratore ardente» (p. 225), e tentarono di espellere da sé ogni impurità “umana, troppo umana”.
Da Nietzsche scaturì: «un furioso torrente di negazione» (p. 228) dei falsi ideali della modernità, Thibon agganciò la negazione dei nuovi idoli a Dio, all’immutabile. Il filosofo francese attribuisce la catastrofe esistenziale del tedesco, al suo esser rimasto fedele al divenire. In realtà, a nostro giudizio, se di fallimento nietzschiano bisogna parlare, esso va attribuito al residuo cristiano che fece dell’eterno ritorno un’ennesima filosofia della storia, impossibilitata, per questo, ad incontrare realmente la physis greca. Solo di fronte a essa, l’uomo, stoicamente, come ribadì Löwith: «Non spera, né dispera», spendendosi per una vita persuasa.
L’opzione di fede ci divide da Thibon. Nonostante ciò, riteniamo questo libro di grande rilevanza esegetica. Coglie ciò che è “celato” in Nietzsche e lo trasmette al lettore in modalità appassionata e coinvolgente.