L’Italia in chiaroscuro nella fuga dall’Afghanistan

Una riflessione analitica sul ruolo del Paese nella crisi di Kabul tra Claudi, Di Maio e Pontecorvo. Sullo sfondo l'interrogativo: come sono stati selezionati "i salvati afgani"?

Il console Claudi nell'aeroporto di Kabul alle prese con il salvataggio di un bimbo afgano

Il console Claudi nell’aeroporto di Kabul alle prese con il salvataggio di un bimbo afgano

Qualcuno ha definito “nuovo 8 settembre” l’ingloriosa fuga americana da Kabul e l’improvviso crollo dello Stato afghano, scioltosi come neve al sole di fronte all’avanzata degli studenti coranici. L’accostamento, oltre a peccare di un certo provincialismo (da noi mai del tutto assente), non sembra però troppo calzante, se non altro perché le poco esaltanti gesta badogliane comportavano un futuro ritorno in scena, impensabile invece sia per Joe Biden, sia verosimilmente per il fuggitivo ex presidente dell’Afghanistan, Ashraf Ghani.

Al contrario, la narrazione proposta in Italia da televisioni e giornali mainstream è stata ben lontana – per i protagonisti nostrani – da quella di una fuga, quale invece si è rivelata non soltanto per gli Stati Uniti ma anche, purtroppo, per tutti i Paesi che, negli ultimi vent’anni, hanno contribuito all’avventura afghana. Si sono invece potuti riscontrare accenti addirittura trionfalistici riguardo all’ “umanità” e all’ “altruismo” dei nostri diplomatici e militari, che hanno portato a conclusione “prima degli altri” le operazioni di evacuazione, salvando “tutti i cittadini afghani che lo avevano richiesto”. 

La cattiva informazione è iniziata presto: le prime notizie diffuse in Italia, infatti, facevano stato, fin dall’entrata dei Talebani nella capitale, della chiusura di “tutte le Ambasciate occidentali” e della partenza “di tutti i Capi Missione”. Solo consultando alcuni siti di media stranieri si poteva accertare che il nostro Ambasciatore, Vittorio Sandalli, aveva invece – unico fra quelli dei nostri principali partner europei – lasciato l’Afghanistan con il primo volo disponibile, mentre i suoi omologhi erano rimasti per coordinare le rispettive operazioni di evacuazione.

Claudi sulla ribalta

Una volta ammessa la verità – e ascoltata l’autodifesa, francamente penosa, del Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, secondo il quale l’Ambasciatore era stato richiamato affinché potesse meglio coordinare le operazioni dalla Farnesina, ove l’Ambasciata aveva immediatamente riaperto i battenti (!) – era necessario per i nostri affabulatori giornalistici trovare un idolo cui affidare il riscatto dell’Italia: anzi, magari, due. Facevano così il giro del mondo – o, più modestamente, d’Italia, dato il presumibile scarso interesse del fatto fuori dei nostri confini – le foto del giovane “console” (in realtà Secondo Segretario dell’Ambasciata) Tommaso Claudi che, in piedi sul muro di cinta dell’aeroporto di Kabul, sollevava e salvava un ragazzino afghano. Senza fra l’altro che qualcuno si chiedesse chi fosse e come fosse stato scelto questo ragazzino, destinato forse a diventare uno dei tanti minori non accompagnati che quotidianamente entrano nel nostro Paese: non su un barcone, stavolta, ma su un aereo militare. Non guastava affatto poi, nel tipico quadro “politically correct”, che il giovane diplomatico fosse figlio della giornalista Giovanna Zucconi, consorte di Michele Serra.

Ma lasciare tutto il peso della notorietà e dell’ “eroismo” sulle spalle del giovane, e certamente coraggioso, Claudi era forse un po’ eccessivo: in assenza del Capo Missione, si doveva perciò trovare un funzionario d’esperienza, un “diplomatico di lungo corso”, che potesse in qualche modo farne le veci di fronte all’opinione pubblica. Effettuava dunque il suo ingresso sulla scena mediatica Stefano Pontecorvo, già Ambasciatore d’Italia in Pakistan e, attualmente, fuori ruolo alla Farnesina per servire come Rappresentante Civile della NATO in Afghanistan. Alcuni siti e canali televisivi iniziavano a definirlo “Ambasciatore italiano a Kabul”, cosa vera dal punto di vista letterale, facendo egli parte della nostra carriera diplomatica ed essendogli stato attribuito dalla stessa NATO il titolo di Ambasciatore nei rapporti con le Autorità afghane: ma, ovviamente, non dal punto di vista sostanziale (vale a dire: nei rapporti dell’Italia con tali Autorità).

Con la cooptazione di Pontecorvo – che iniziava a rilasciare interviste e, dopo il rientro in Italia, a fare ospitate in TV – andava dunque a buon fine il “maquillage” di un’operazione di rientro in Italia partita in maniera per lo meno discutibile, con la defezione del Capo Missione. Defezione che non si vuole qui in nessuna maniera attribuire alla volontà dell’Ambasciatore Sandalli, ma a quella del Ministro degli Esteri, come rappresentata e attuata dall’alta dirigenza della Farnesina. 

La ciliegina sulla torta, subito dopo l’arrivo a Fiumicino dell’ultimo volo militare da Kabul, veniva posta dal Capitano dei Carabinieri Alberto Dal Basso, il quale dichiarava che il console aveva “salvato la vita” dei suoi militari, impedendo loro di raccogliere altri potenziali profughi proprio nella zona dell’aeroporto che sarebbe poco dopo stata colpita dai kamikaze dell’ISIS-K. Un’affermazione, per carità, più che comprensibile dal punto di vista umano, ma forse meno da quello del servizio, anche perché pronunciata proprio da un ufficiale impegnato nelle delicate azioni di salvataggio. Ed è stato subito dopo l’attentato che, molto probabilmente, si è deciso che il volo italiano ancora da effettuare sarebbe stato l’ultimo: una decisione anche questa comprensibile, ma che non può non lasciare l’amaro in bocca, dato che ha causato la mancata partenza di vari nostri ex collaboratori o comunque di altri cittadini afghani cui erano state fornite assicurazioni.

Come sono stati scelti i “salvati afgani”?

Quest’ultima triste esclusione ci porta ad un’ultima considerazione, già in parte introdotta in precedenza, trattando del minore afghano salvato dal Segretario Claudi: come sono stati scelti i cittadini afghani da trasportare in Italia? Perché alcuni e non altri? Il caso, emerso da pochi giorni, dei molti studenti e studentesse dell’Università La Sapienza di Roma che sono stati lasciati a terra, dà davvero da pensare. Non dubitiamo che, come sempre succede in Italia, si rimedierà nei prossimi giorni, anche con coraggio, a tale errore e agli altri analoghi che, verosimilmente, sono stati commessi: ma, ancora una volta, a seguito di una mancanza di visione generale che si sarebbe potuta e dovuta evitare. 

Nel frattempo, dopo vent’anni di impegno politico e militare in Afghanistan; dopo 54 soldati italiani morti e oltre 700 feriti; dopo che il nostro principale alleato, per voce del suo Presidente, ha negato che la coalizione occidentale volesse “costruire una nazione”, quando invece l’institution building e il miglioramento dell’amministrazione pubblica afghana sono sempre state al centro della nostra presenza in quel Paese; dopo tutto questo, ci apprestiamo a convivere per forza di cose, come dovranno fare tutti i nostri alleati compresi gli USA, con quei Talebani che avevamo contribuito a tenere lontani. Non ci sarà altro da fare del resto, sempre che gli studenti coranici non vengano a loro volta detronizzati da qualche gruppo ancora più “puro”.

In ogni caso l’Italia, una volta terminata la saga delle evacuazioni da Kabul, non potrà non subire un ulteriore aumento dei flussi migratori, provenienti questa volta da quella martoriata terra: flussi probabilmente dovuti, a quel punto, più a ragioni economiche che di persecuzione politica e religiosa, ma ai quali sarà ben difficile, se non impossibile, dire di no. Tutto questo, senza avere alcuna responsabilità storica nell’area, ad eccezione ovviamente di quella, comunque secondaria, degli ultimi vent’anni.

Lammermoor

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