L’attualità pragmatica di Dominique Venner nella lotta alla tecnocrazia

Il pensatore francese elaborò una sintesi europea tra razionalismo e tradizione. Nella pratica: più tenuta e sforzo di comprendere il reale, meno ribelli che si sentono tali solo perché non mettono la mascherina

Dominique Venner

In tempi disadorni che fanno della contrapposizione sterile e urlante una regola, e della finta polarizzazione da (a)social(i) una necessità per anestetizzare qualsiasi interpretazione critica del reale, riscoprire il valore della sintesi è atto di profilassi. Se a ciò si aggiunge il richiamo delle origini e l’esempio di chi illumina le parole con i gesti, la riflessione diventa un modo per allenarsi a un’etica della tenuta.

Che cos’è il nazionalismo? di Dominique Venner è uno di quei libri da maneggiare con un ideale cannocchiale, per vedere da vicino ciò che sembra lontano e osservare a distanza quanto può invece apparire diverso sotto i nostri occhi. Completamento di “Per una critica positiva”, uscito in appendice a Europe Action nel 1963, il testo è stato riportato alla luce dalla casa editrice Passaggio al Bosco.
Che cos’è il nazionalismo, l’ultimo saggi di Dominique Venner pubblicato da Passaggio al Bosco

Un libro asciutto, agile, a tratti sorprendente per gli esiti a cui conduce, anche per chi è avezzo alle vette del samurai d’Occidente. Per affrontarne la lettura evitando confusioni semantiche e incomprensioni ideali, particolarmente prezioso è il saggio introduttivo, vergato da Marco Scatarzi. Il nazionalismo cui si riferisce Venner non è certo il prodotto piccolo-borghese della Rivoluzione francese, così come “occidentale” non fa certo riferimento a quell’impero del sol calante a traino yankee che soffoca e comprime il patriottismo europeo. Venner parla all’Europa, destino che da sempre ci appartiene, senza fisime da sciovinisti della domenica.

Tra scienza e spirito

Una delle chiavi di lettura più originali e attuali che si ritrova nel libro riguarda il rapporto tra tradizione e razionalismo, tra scienza e spirito. Un legame che spesso viene misconosciuto, per le storture cui certo razionalismo ha condotto, ma che pure fa parte dell’eredità europea che ci innerva. A tal proposito, Scatarzi riprende con un’espressione icastica uno dei leitmotiv del testo, quando descrive l’europeo come colui che ha
“lo sguardo rivolto al cielo ma i piedi ben piantati in terra”.
Venner rintraccia nel genius loci del continente anche una predisposizione prometeica innata di chi
“cammina sulle orme dei suoi antenati greci che, aprendo la via del pensiero razionale, avevano permesso all’uomo di affrancarsi dalle superstizioni e di prendere possesso del mondo attraverso la conoscenza delle sue leggi (…) Se l’Europa è la patria degli scienziati, degli esploratori e dei costruttori, è pur sempre anche quella degli artisti, dei poeti e dei santi. La particolarità dell’Europa è di non aver mai opposto il pensiero all’azione”.
Sembra considerazione banale, eppure la tendenza a rifugiarsi in un romanticismo irrazionale che scappa dalla tecnica invece che affrontarla e servirsene, è concreto. Oggi forse ancora di più rispetto ai tempi in cui Venner scrive e fa appello
“allo spirito assoluto dell’Europa, simbolizzato dal mito di Prometeo, il titano che sottrasse agli dei il fuoco del cielo, per dare agli uomini la conoscenza e il dominio del mondo”.
Insegnamento da tenere a mente, perché a negare il valore della conoscenza scientifica si rischia di ritrovarsi monchi di un elemento imprescindibile di ciò che ci è stato tramandato, e di dare adito a potenziali degenerazioni che nulla hanno a che vedere con l’eredità d’europei che avremmo il dovere di far vivere in ciascuno di noi. Un pericolo concreto, se banalmente si guarda a vicende attuali come l’atteggiamento dinanzi alla gestione dell’attuale pandemia. Sacrosanto contestare le storture del Green pass o denunciare i possibili tentativi di sperimentare forme di controllo sociale con la scusa del virus. Ma da questo a gridare al complotto, sposare le follie della folla berciante dei no-vax e sentirsi un anarca jungheriano solo perché si rifiuta una puntura, ce ne passa un bel po’. E forse converrà – anche a una parte del mondo che si vorrebbe identitario – ricordare che invocare continuamente violazioni della libertà individuale e gridare allo Stato di polizia è atteggiamento da liberali, non certo consono a chi ha presente che il valore della personalità riceve il suo senso nella comunità. In soldoni: più tenuta e sforzo di comprendere il reale, meno ribelli che si sentono tali solo perché non mettono la mascherina.

La lotta al globalismo

Detto ciò, è chiaro che recuperare un filone della cultura europea per farne sintesi non significa evitare uno degli snodi cruciali del tempo, quella lotta al globalismo che passa anche dalla contestazione senza tregua della tecnocrazia. Perché, sostiene Venner,
“se siamo fieri delle conquiste della scienza e della tecnica, ci ribelliamo contro l’uso aberrante che troppo spesso se ne fa”.

Riflessioni preveggenti

Su questo versante, il testo diventa profetico, prefigurando con decenni d’anticipo scenari e dinamiche che si sono affermati nell’evoluzione del capitalismo transnazionale.
“Il capitalista individuale, il padronato della tradizione iniziale è scomparso – scrive Venner, nel lontano 1963 – Al suo posto è subentrato un capitalismo spersonalizzato, disperso, anonimo (…) Non sono più i titolari del capitale che dirigono e controllano le imprese, ma gli specialisti dei meccanismi finanziari, alti funzionai delle holding e delle banche, reclutati per cooptazione nell’ambiente molto chiuso dell’alta borghesia. Ambiente che conviene chiamare col proprio nome: la casta dei tecnocrati”.
Nel passaggio non c’è alcuna cesura, suggerisce lo storico francese, ma una naturale trasformazione perché
“i tecnocrati di oggi non sono diversi dai capitalisti di ieri. Sono i profittatori del lavoro degli altri, i reazionari dell’epoca moderna (…) Per loro, le comunità umane non sono che immense società anonime il cui funzionamento anarchico deve essere ordinato dalla creazione di un grande mercato mondiale razionale e normalizzato”.
Venner intuisce che la definitiva frattura tra Paese reale e Paese legale è avvenuta a netto vantaggio del secondo, ma anche che “la malvagità del Regime susciterà in futuro nuove esplosioni popolari. Se saranno disorganizzate, queste rivolte finiranno come le precedenti. Tutta la nostra azione deve quindi avere lo scopo d’introdurre il lievito nella pasta”. Ogni riferimento alle proteste – i Gilets jaunes in Francia, o i no-pass di oggi – sembra voluto. “Coloro che credono nello spontaneismo, credono nella risurrezione dei morti” sentenzia lo scrittore transalpino.

L’ispirazione per la milizia

Ci si può porre, dinanzi a uno scenario del genere, con atteggiamento regressivo e reazionario, rifugiandosi nel bel tempo che fu o in un generico conservatorismo? Oggi, come allora, è scelta da residui della storia. “Cosa abbiamo da conservare in questa società? La sua ideologia? La sua gerarchia sociale? I suoi costumi? Tutto questo noi lo vogliamo rovesciare. Allora? Non bisogna fare confusione. Quello che dobbiamo formare non è un partito conservatore, ma un movimento rivoluzionario” scrive Venner, introducendo l’ultima parte della sua opera, dedicata alla militanza. Anche qui: niente spazio per parodistici giullari e fardelli umani, perché
“zero più zero, fa sempre zero. La somma dei mitomani, dei complottisti, dei nostalgici, degli arrivisti, dei “nazionali”, quindi, non darà mai una forza coerente. Conservare la speranza di unire gli incapaci è perseverare nell’errore”.
Uno striscione dedicato da Cp a Dominique Venner

Al militante, invece, dev’esser propria quella che de Benoist chiama “un’etica della tenuta”, affinché chi insorge contro il fatalismo recuperi lo spirito della tradizione europea in una prassi quotidiana, cha la rinnovi senza snaturarla. Forgiando uomini che, scrive Venner,

“hanno conosciuto di tutto: l’indifferenza che non si può scuotere, l’insulto che non si può raccogliere, i colpi che non si possono restituire, l’amico che cede, quello che si allontana. E poi ne sono venuti altri. Il pugno d’uomini s’è moltiplicato. A contatto coi primi, i nuovi hanno imparato a essere duri, lucidi, tenaci: a essere dei militanti”.
La sfida è enorme, la sintesi necessaria. Il samurai d’Occidente, dalla sua eternità, ci indica una strada, quella dell’impegno.
“In noi c’era una forza che non avevamo il diritto di sprecare nell’amarezza, nel risentimento o nella nostalgia”.

Mario De Fazio

Mario De Fazio su Barbadillo.it

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