Racconto d’estate. L’incontro immaginario con il proteiforme Curzio Malaparte

Il dialogo con il celebre scrittore che passò dal fascismo a Mao scrivendo romanzi e saggi che sono parte essenziale della letteratura italiana

Curzio Malaparte

Oggi incontro Curt Erich Suckert, ovvero Malaparte. Un mostro sacro delle lettere dalla vita tumultuosa, quasi più fascinosa delle sue opere.  Malaparte è di padre tedesco ma lo rinnega per conflittualità, tra l’altro una paternità messa in dubbio. Lui mitizza l’essere toscano, di Prato, perché questo lo preserva dall’essere italiano. Nel 1914, sedicenne, fugge dal collegio e si arruola volontario nell’esercito francese. Combatte a Bligny alle dipendenze di Peppino Garibaldi contro le Sturmtruppen. Respira l’iprite, il gas degli austriaci e si rovina i polmoni. Per un’azione coraggiosa riceve una medaglia di bronzo. Evento molto importante per le successive descrizioni e ottimo paravento. Ogni volta che si infilerà in un pasticcio per districarsi estrarrà dal cilindro la sua figura di patriota, di giovane eroe. A salvarsi. 

Io, ragazzo, guerriero con la penna, l’ho rimproverato per essere passato dal: “sorge il sole canta il gallo, Mussolini monta a cavallo” a filomaoista. Speriamo non lo ricordi altrimenti addio evocazione. Lo incontro vicino al suo mausoleo in cima al Colle Spazzavento, già nome e località indicano la sua riservatezza e scelta per “sputare nella gora fredda”. Per ingraziarmelo: <Mio bisnonno era di Lamporecchio,> gli sussurro. Non mi degna. 

Si avvia sicuro che lo seguo, non si gira a cercarmi e mi incita: <Andiamo.> <Dove?> preoccupato da tanta foga. “Presto, per il duello”. Accidenti, della sua vita proprio questo? Pentito, quasi quasi cambio autore. Nel tragitto non mi chiede del governo, si interessa solo ai suoi cani bassotti: Pucci, Cecco e Zita. Lo tranquillizzo. Non mi domanda neppure perché le strade siano deserte. Non sarebbe sorpreso sul motivo, la faccenda del virus potrebbe benissimo essere sgorgata dai suoi libri. 

Chi è lo sfidato? Un giornalista del “Figaro” che ha offeso gli italiani tirando a mezzo il colpo di pugnale alla schiena del 1940. Ah, ha anche bocciato i suoi pezzi teatrali. Il luogo dello scontro è deserto e non solo per il contagio. Il francese furbescamente si aggrappa a un ritardo dei padrini e si guarda bene dal presentarsi. Menomale. Non intendo perdere tempo, sono curioso e mi lancio: “Si dice che lei avesse una simpatia per Virginia Agnelli”. So vagamente del suo progetto di diventare il padrone della Fiat.

Quasi ringhia: “Il senatore…”. Allude sicuramente a Giovanni Agnelli, suocero della Virginia.  “Mi ha fatto perdere il posto di direttore alla Stampa e mi ha spedito al carcere Regina Coeli con i ferri, poi al confino a Lipari.  Fortunatamente è intervenuto Costanzo Ciano a farmi relegare a Forte dei Marmi”. 

Mi permetto: “La signora Virginia era sposata con Edoardo Agnelli, l’erede della dinastia. Oltre alla tresca, trapelata, lei  elogiava la rivoluzione russa sul giornale di famiglia!”. Non raccoglie le mie obiezioni. Guarda caso lo spostamento di Ciano lo aveva portato proprio dove villeggiava la signora. Il marito Edoardo si era tolto presto di mezzo.   Il suo idrovolante ha un incidente nell’ammaraggio a Genova. Le pale del rotore gli staccano la testa. Sembra un multiplo di Caravaggio, delle sue decollazioni. Ma il padre, padrone delle ferriere, e il Duce brigano per contrastare l’amore, il matrimonio promesso e ci riescono. Virginia avrà cinque figli e morirà nel 1945 in un incidente d’auto, la leggenda vuole che si recasse dallo scrittore. 

Malaparte è un dandy elegantone, passeggia con i levrieri. Ha tante donne, le conquista e poi le butta. È il maschio ha altro da fare, la storia. Non gli chiedo delle presunte relazioni con le attrici Mangano, Pampanini. Nel catalogo c’è anche una ragazzotta californiana con velleità da star che si uccide per lui, che è cinquantenne, e lo saluta con: “But I loved you, damned!”. Questo all’incontrario di Pavese, vittima lui per un’attrice. 

Malaparte squadrista, fascista? Certamente, ma nel 1921 scrive “Viva Caporetto!”, in cui esalta i disertori come proletariato che si ribella. La rivolta dei santi maledetti. Eccezionali le sue descrizioni delle sofferenze e atrocità delle guerre. Ma sembra dapprima fomentarle per illustrarle. Si compiace delle brutture, delle sciagure. Se pittore sarebbe stato un truce espressionista. 

Quando il suo Mussolini cade da cavallo, lui con buon fiuto ha già abbandonato l’equitazione. E qualche calcione glielo assesta per poi commuoversi a vederlo appeso e oltraggiato. Perché si accaniva contro i perdenti? Prima li esaltava nell’ascesa e poi li calpestava quando erano già a terra. Giordano Bruno Guerri lo difende, lo assolve da tante malefatte, ma afferma: usava il morso del cobra verso i benefattori.

Sì, cialtrone, bugiardo, ingrato, qualsiasi epiteto gli cade a pennello ma sa di essere geniale e profeta. Nella sua opera “Tecnica del colpo di stato” del 1931 c’è il mondo che verrà: guerre, nazionalismi, socialismi con i loro burattini. Per lui la libertà è un mito borghese al quale si può e si deve rinunciare in nome del potere. Mussolini ne proibisce la pubblicazione.

I suoi libri: Kaputt, La pelle, Mamma marcia, con il loro intenso valore lo preservano dall’essere mescolato ai pennivendoli del suo tempo. Giustificano il suo aristocratico, persino ascetico, distacco. 

Nel dopoguerra Malaparte si affanna a dimostrare il suo antifascismo, sposta le date del confino aumentando i mesi e fa così con l’elenco delle persecuzioni dimenticando i favori goduti. Ma è trattato con diffidenza. Gli altri compromessi con il passato regime invece non danno spiegazioni. Il suo amico Rossellini da regista dell’aviatore Serra passa tranquillo al neorealismo. Assieme a tanti altri che già fermentavano nei Littoriali un cambiamento.

Nel 1944 chiede la tessera del Pci però un anno dopo, con coraggio, già denunciava il fascismo dell’antifascismo, e lui era un buon conoscitore dell’uno e dell’altro. 

Va in Francia, dove ritiene di non essere nel mirino dell’epurazione ma è vittima dell’esistenzialismo imperante. Il trascinatore è adesso  J. P. Sartre.  Con Curzio si sono appena odorati e ignorati. È il tripudio della Rive Gauche della Senna, le caves dove canta Juliette Greco con la sua voce roca, e di Sidney Bechet, Le Dieu, con il suo “petit fleur” al clarinetto.

Malaparte si riduce a scrivere di Coppi e Bartali elogiando la bicicletta dalla sua casa che è uno scoglio inaccessibile. Villa Punta Masullo Capri edificata sul ciglio di uno strapiombo. Villa che lascerà ai cinesi ma contesa dai parenti, eredi naturali, che vinceranno la causa e ne riprenderanno possesso. 

Gli ricordo i contrasti con Indro Montanelli che lo ha definito: “servo sciocco di Ciano,  un Camaleonte travestito da Narciso”. E lui di rimando: “Vuole imitarmi ma non sarà mai come me. Ci disputavamo i reportage dall’estero e i compensi”. Curzio, durante la malattia, voleva che morisse prima di lui, una fissa da toscani. Una rissa: i brigidinai di Fucecchio contro i cenciaioli di Prato. Non gli dico della longevità di Indro per non indisporlo.

Potrei indagare sulla sua avventurosa conversione in articulo mortis, lui blasfemo e mangiapreti. Dovrei ricordargli la lunga agonia, il cancro che gli ha attaccato i polmoni già corrosi dai gas della grande guerra. Con Fanfani e Togliatti a strappargli l’ultima adesione. Conteso, assediato. Vince il terzo, Padre Rotondi, che annuncia una conversione miracolosa tramite suor Carmelita che lo veglia e assiste. C’è la comica di una tessera del Pci strappata, no, nascosta sotto il materasso. Curzio abbandona la scena molto malvolentieri e lascia da pagare il conto alla Clinica Sanatrix.

Adesso Malaparte è con me ed è angustiato per il mancato duello: “Ne ho fatti decine”, come a scusarsi. E irrequieto mi propone: “Andiamo a Napoli, ci sono gli amiconi della Pelle. Ci divertiremo”. Sì, gli ufficiali Usa, le segnorine, i femminielli. Un coacervo: i soldati di colore disertori, nella pineta di Tombolo. E l’Italia umiliata e prostituita agli aiuti dell’Erp, piano Marshall.  Sono restio e freno. Polemico e retorico oso: “Un popolo non dovrebbe avere liberatori, la libertà dovrebbe conquistarla da sola”. Un plagio lampante chissà da chi. Malaparte si rabbuia e subito: “Ritorniamo al riposo”, deciso. E: “Da solo, da solo”, esige. Si allontana altezzoso, incoronato dal successo, calpestando quel pubblico che intimamente disprezza. E finisce in un francobollo, chissà il suo ribrezzo ad essere leccato. Una piaggeria ambita ma poi repulsa.  Non ci sono saluti, di sicuro mi considera un bischero. Uno sciocco, un ingenuo: niente ribollita!

Sindacalista rivoluzionario, fascista, comunista, cattolico. Le ideologie, vestiti che indossava e come scopriva non adatti alla sua taglia li sgualciva e li gettava. Che dire è un po’ tutto, totalizzante.  È un maledetto toscano e come tale per me c’è solo lui.

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Gianfranco Andorno

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