Il racconto. Quando ci si riconosce da una citazione sulla maglietta

paolo viveTerra di caldo e festa. La Sicilia è questo. Sopratutto in estate. Escono i santi, girano le processioni, mentre i cieli vengono incendiati dai fuochi innocui dell’ingegno umano. Che spettacolo. Fronte in alto, bocca aperta e scattano gli applausi. Di tutti, sopratutto dei turisti. Ma non sempre sono stranieri al cento-per-cento. La stagione rovente impone il ritorno a casa. E’ il tempo del contro esodo di anime. I figli delle madri rientrano all’ovile. Tornano da Milano, Roma, Torino o dall’eldorado veneto. In libera uscita dalle fabbriche, dagli uffici o dalle tante e inefficaci stanze-dei-bottoni-ad-equo-canone che affollano la mappa di caste e poteri all’italiana.

Ritornano anche i rampolli borghesi, partiti per sazietà e non per fame. Pellegrini verso le grandi capitali d’Europa. Magari Londra, Berlino o, chissà, Amsterdam. In cerca di un’esperienza da raccontare a qualcuno, una riga di estrosità nel proprio curriculum personale. Per loro  il volo di rientro  è spesso a neanche un anno dai saluti d’addio. Altre volte si concedono del tempo e tornano con in braccio un bambino e  al fianco una compagna di riproduzione che non verrà mai istituzionalizzata come sposa,  che  a sua volta non è né italiana e né figlia di quella capitale. È anche lei una girovaga inquieta, vittima di un anticonformismo slavato e banale che infetta molti. Convinta che quella filiazione non sarà un legaccio definitivo, ma solo una riga in più dentro quel famoso curriculum a porzione individuale, riempito il quale la vita vera avrà inizio.

Si torna dunque indietro. Da quelle terre frenetiche che promettono uno stipendio certo ed una porzione di futuro spendibile. Ma non per questo un presente oltremodo degno, né tanto meno un passato emozionale. La lunga transumanza d’agosto è la liturgia sudata del ritorno indietro, della nostalgia delle origini. Un tuffo nello specialissimo museo di ricordi a misura di nucleo familiare che ogni persona degna di questo stato ha. Un rifiatare dunque di storie umane.

***

La Sicilia è pure un’economia poco vivace. Ma non per questo timida. Anzi, è proprio sfrontata. Sono a migliaia le sagre che accompagnano le feste dei santi. Ci vuole un sforzo d’immaginazione a chiamarle così. Il prodotto in vendita è uno solo, fornito ovviamente da un’ unica ditta appaltatrice, vincitrice a dispetto di una gara mai indetta. Che sia pesce spada, polpo o tonno bianco, poco cambia nella sostanza. Il prodotto è uno solo, come uno è il fine di questi eventi: far cassa. Non c’è nulla di male, per carità. C’è poco da improvvisare. Nonostante l’acquolina in bocca sia frustrata, la fame è placata lo stesso. E la vista pure. Eventi simili riversano in strada il meglio della gioventù al femminile: pelle di bronzo, sorrisi smaglianti e profumi al sapore d’abbronzatura. I maschi sono altrettanti, e a loro modo affamati.

Antonio è in fila per un sorbetto al limone. Tiene sotto al braccio la sua Roberta. La fila è lenta e il caldo pressante. Sono tutti ammassati, ma lo stesso in perfetto ordine. Il nervosismo sale con il calore. La gente si lamenta, come è giusto che sia. Antonio ha in dosso un t-shirt verde scuro. Su le spalle campeggia la scritta “Paolo Borsellino  eroe nazionale” e sul davanti il volto del giudice palermitano quasi a riprodurre un Che Guevara in salsa isolana. Da dietro un signore allunga la testa e si lascia sfuggire soddisfatto un «complimenti per la maglietta». Antonio si gira. Vede un signore oltre i quaranta: alto, spalle larghe, viso placido e accento nordico. «Grazie» risponde.  Si rigira  e a  bassa voce sussurra a Roberta: «Lo vedi, la gente onesta esiste. Borsellino – continua con una strana frenesia ebbre di orgoglio – è un simbolo per tutti. Bisogna portare avanti il suo nome. Senza vergogna». Lei annuisce compiaciuta, mentre adagia la testa sul suo petto.

Nel frattempo, dal lato della fila, un ragazzo, vent’anni circa, supera la fila e va dritto alla cassa. Molti si lamentano. Ma costui non bada alla folla. Antonio vede la scena. Si spazientisce. Lo osserva un attimo. Lo fissa. Ha dei capelli neri alla mohicana, con rasature sulle tempie. In dosso ha una maglia dei Rancid, vergata da una A di anarchia. Lo chiama con voce alta e ferma: “Ehi, tu. Vieni qua”. Finalmente si gira. Si avvicina. Si guardano fisso. Antonio, con il pollice rivolto verso il retro della fila gli dice: «Va indietro e fa la fila come gli altri». Gli risponde lui, con accento vagamente milanese e zigomi arroganti: «Mio padre non può stare in piedi e fila non ne faccio». «Appunto, lui non tu!». «Fatti i cazzi tuoi!» gli ribatte. Allora Antonio con la mano sinistra gli afferra il colletto della t-shirt e con la destra si carica un pugno. Da dietro però gli si poggia una mano sulla spalla. Dell’altro lato una voce gli dice all’orecchio: «Lascialo stare, quello ha un’altra maglietta… tutta un’altra storia, un’altra mentalità». Riconosce la voce, ci pensa un attimo, molla la presa, mantenendo però lo sguardo teso e dandogli un spintarella con la mano: «prenditi quello che devi prendere e vattene subito a casa!».

Roberta è senza parole. Tipica faccia di colei che vorrebbe fare un rimprovero. Ma teme una contro risposta feroce.  Antonio la guarda velocemente negli occhi. E subito cerca lo sguardo del signore dietro di lui. Che gli dice: «Beh non possiamo fare mica a cazzotti con tutti gli stronzi che ci capitano a tiro. E si apre in un sorriso rassicurante». Nel frattempo è arrivato il turno alla cassa. Antonio e Roberta prendono il sorbetto e pagano. Ma prima di andare via vuole fermarsi a salutare quel signore. Sente che hanno qualcosa di davvero importante in comune. Gli si avvicina. Ha le braccia conserte. E gli dice: «é stato un piacere conoscerla». Vanno per stringersi le mani. Ma in automatico e in totale sicurezza, non si afferrano i palmi, ma gli avambracci. Un saluto antico. Romano. Si penetrano negli occhi. In quell’attimo la stretta è più energica. Si staccano. Antonio riprende Roberta e va via. E mentre cammina più volte gira la testa per osservarlo di nuovo. E si lascia sfuggire una frase: «Lo sapevo che dei nostri».

Fernando Massimo Adonia

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