Franco Battiato, l’ultimo dei “musikanten” che volle diventare un “suono”

Nella sua opera una "koiné" di suoni e suggestioni che si fanno epica ed estetica dell'immaginario collettivo

Battiato se ne va… Fedez resta, direbbe qualcuno, facendo il verso al marinettiano “gli dei se ne vanno D’Annunzio resta”, con cui il papà del Futurismo, in vena di polemiche, pretendeva sunteggiare, a suo tempo, i termini del passaggio dall’eroica epoca risorgimentale dei Verdi e dei Carducci alla certamente più disimpegnata “favola bella” di un D’Annunzio, non ancora Vate, in vena di Belle Epoque. Ma questo mi sembra un altro discorso, perciò non entrerò nel merito.

Ci lascia un cantautore, o, meglio un cantante-autore, che fu un cantante vero, poiché seppe, con anacronistica protervia da conservatorista barocco, da ultimo dei “Musikanten”, affinare le sue doti canore con lento e costante impegno: come si impara uno strumento, come si coltiva una pianta, come si fa cultura; e fu vero autore, poiché la sua musica in ogni nota così come in ogni frase ne rivelava l’animo di serio e raffinato studioso, le sofisticate quanto profonde letture, il suo pensiero sempre anticonformista e visionario.

Si intuiva durante le sue uscite televisive, poche, nelle interviste rilasciate, quando parlava di politica (“povera Patria”) o della musica contemporanea (che, proverbialmente, “mi butta giù”) che come tutti coloro i quali si tengono distanti dai commerci del mondo, non aveva dimestichezza – egli pure navigato “animale da palcoscenico” –  con quella “diplomazia” che spesso non è se non il “nome di mercato” con cui ruffiani e cortigiani rendono presentabile al pubblico la loro ipocrisia e vuotezza. E “di cosa vivrebbero“, del resto, quei “primari e servitori dello Stato” un po’ “rincoglioniti” e mai paghi di “extra” se non avessero “moneta sonante da gettare come ami fra la gente”? Si chiedeva qualche anno fa il Nostro.

Quello stesso “razzismo” che lo portava a fuggire quei “programmi demenziali con tribune elettorali” forse lo tenne al riparo, egli di certo non ateo, da facili filisteismi democristiani, quelli insomma da “gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori della dinastia dei Ming”. Forse perché il Dio di Battiato era quello di Plotino, di Dionigi dell’Aeropago, di Mastro Echkart, di René Guénon, il “totalmente altro” dal mondo, di cui quest’ultimo è solo l’“ombra della (Sua) Luce”.

Perché “tutto passa”, “passa la gioventù non te ne fare un vanto, lo sai che tutto cambia, nulla si può fermare, cambiano i regni, le stagioni, i presidenti, le religioni, gli urlettini dei cantanti… si cambia, amore, idea, umore…”, così cantava nella struggente Di passaggio  – correva l’anno di grazia 1997 – singolo estratto da quell’album, L’imboscata, che conteneva un altro  celeberrimo pezzo La Cura,, che diverrà uno dei “cavalli di battaglia” della produzione di Battiato,  in cui prometteva, o gli veniva promesso, forse dal suo Sé superiore, dicono i “più addentro” al Battiato-pensiero, d’esser tratto dallo spazio-tempo, categorie in cui è rinchiusa la percezione mentale dei mortali in questa terza dimensione: “Supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare…“

E noi, suoi fan e, un po’ suoi discepoli, vorremmo credere che quell’ottundimento che aveva investito la  sua mente negli ultimi tempi, come si racconta di quei mistici d’ogni fede e colore che tanto amava, come fu per il folle divino Al-Ḥallaj, fosse in realtà solo il preludio di un’estasi trasfigurante.

Nulla togliendo agli altri grandi artigiani del cantautorato italiano, ai Gaber, ai De André, ai Guccini, solo per citarne alcuni, Battiato per i temi trattati ci sembra porsi come il più “universale” tra essi: perché all’Universale sempre si rivolse, soprattutto quando cantava d’Amore. La sua musica ha dato voce all’anelito di liberazione di molti dagli angusti confini in cui, sovente, si risolve certa asfittica cultura nazionalpopolare di largo consumo, assumendo non di rado i toni di poesia civile, ma anche di via di fuga da ciò che gli stessi Pink Floyd ebbero già a chiamare “The Wall”, quel vero e proprio  “sistema” di “replicanti” promosso dal senso comune borghese.

Una new wave, più che una new age, seppur certamente “acquariana”, diremmo, se il termine non fosse così inflazionato, dunque certamente rivoluzionaria e libertaria, quella apportata dalla sua musica nel contesto musicale e nel costume del Bel Paese. Una koiné esplosiva di tradizionale virtuosismo canoro e virtualismi esoterici ed esotizzanti tipici dell’impareggiabile sound anni ’70/’80. Epica post-moderna in chiave elettronica potrebbe definirsi la produzione di Franco Battiato , in cui confluiscono, come in una ideale Istanbul dell’immaginario collettivo, l’Oriente e l’Occidente, lo spirito contemplativo del derviscio e l’eclettismo dello sperimentatore d’avanguardia.

Siciliano come Cagliostro e come questi amante di conoscenze riposte, i suoi capelli ormai canuti quasi lo facevano rassomigliare ad un gentiluomo settecentesco: un Vivaldi con chitarra elettrica e sintetizzatore, che in modo vago richiamava esteticamente quei wunderer del secolo di Voltaire, come un Cagliostro, appunto, o un Saint Germain.

La sua voce riusciva a raggiungere il cuore di chi ad essa sapeva prestare orecchio, al di là della patina, pur godibile e pop, di molte sue fortunate produzioni, come la voce di un “gran seihk”, di uno yogi nell’atto di impartire, attraverso le vibrazioni vocali, la shaktipat, una iniziazione spirituale.

Ritratto di un uomo che voleva essere un “suono”.

Giovanni Balducci

Giovanni Balducci su Barbadillo.it

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