I Simpson spenti dal pol corr, il caso Apu e la normalizzazione della satira sociale

Requiem per un genere (sempre meno) frequentato e (sempre più) frainteso. Perché è scomodo prendere in giro il potere sempre più permaloso

L’attore Hank Azaria, celebre in tutto il mondo per essere stato la voce del personaggio di Apu dei Simpson, ha chiesto scusa per essersi prestato – come ha spiegato in un podcast – a rappresentare stereotipi razzisti ai danni degli indiani. Che, ha detto, vorrebbe incontrare uno per uno per chiedere loro scusa.

La vicenda era partita nel 2017 dalle rimostranze di un comico indiano e aveva sollevato il solito polverone negli States che si era “concluso” con la rimozione del personaggio dal “cast” di macchiette simpsoniane. Sì, perché in realtà tutti i personaggi della serie, come fin troppo noto, rappresentano dei cliché e dei luoghi comuni, a cominciare dall’odioso Luigi Risotto, il “cuoco” italiano. Del resto, uno dei topoi della comicità, magari la più basilare e basica come lo è appunto quella dei Simpsons, è proprio la presa in giro del “diverso”.

La questione “satira”

La vera questione, però, è un’altra. I Simpsons, nonostante una vulgata che ancora s’intestardisce a incasellarli così, tutto fanno fuorché satira. Ed è da (molti) anni prima che esplodesse il caso Apu che accade, che Homer Simpson e signora sono diventati, più o meno, inoffensivi quanto “Mike e Molly” o gli altri personaggi dei serial tv americani. Non che sia un peccato, per carità. Però non dite più che è satira altrimenti il rischio è dare la mazzata finale a un genere che se non è scomparso, poco ci manca.

A Matt Groening va riconosciuta l’intuizione geniale: un cartone animato “per adulti” (o quantomeno per teenager che ambissero a non farsi più intrattenere con storielle da bambini). Gli anni ’90 hanno rappresentato una cavalcata trionfale per la famiglia Simpsons, che si sono imposti in tutto il mondo anche grazie all’utilizzo di stilemi propri della satira. Quella scelta da Groening, però, è stata la satira di costume che è ben diversa e molto più “comoda” di quella politica. Un (doppio) colpo di genio.

Gli anni, però, passano e diventa sempre più difficile inventare cose e storie nuove attorno a una famiglia che, in trent’anni, è passata dal rappresentare una sorta di semi-proletariato a ultima raffigurazione piccolo borghese. Lisa sempre più proiettata a “profetizzare” nuove sensibilità (non diversamente dalle ragazzine di tutte le serie americane dei primi anni 2000, a cominciare da “Una mamma per amica”), Bart ormai innocuo con la sua fionda e uno skate sempre meno trasgressivo, Maggie sempre muta e Marge e Homer alle prese con le crisi di mezz’età. Tante battute, piazzate qua e là, a ricordare i tempi in cui erano “pruriginosi”.

Intanto, tutti hanno cercato di replicare, qualcuno in piccolo qualcun altro meglio, il “canone simpsoniano”. Almeno quello delle origini. Il risultato è stato l’annacquamento della satira, ormai avvitata nei più classici temi di costume da cabaret, il suo graduale passaggio verso la comicità. Che, specialmente in America (e fatte salve le debite distinzioni come, su tutti, Woody Allen), ha registri e toni decisamente meno raffinati che in Europa. La satira, se la cercate, si può trovare un po’ in South Park: certo, anche loro hanno dovuto abbassare il tiro però, almeno, da parte loro, hanno il merito di averci provato a sfidare Twitter. Assolutamente da evitare altri lavori, come Paradise Police: un tripudio di pretesa comicità assolutamente infantile, in pieno stile Scemo e Più Scemo, su temi da “grandi” (absit iniura verbis) come droga e sesso.

Un genere letterario in dissolvenza

Il dato è e rimane un altro. La sparizione della satira. La comicità pura e semplice, condita da un paio di tirate moralistiche rese magari con il tono patetico di chi fa appello ai sentimenti, rende di più e non fa rischiare nulla. Ci assomiglia ma è tutt’altro. Sicuramente qualcosa di meno ingombrante e “pericoloso”. Di sicuro non si fa mica la fine di Ambrose Bierce, uno dei più grandi scrittori americani (semi dimenticato) e fiero nemico dei trust del XIX secolo, che sparì (letteralmente) da un giorno all’altro e di cui non s’è saputo mai più nulla.

Di “satira” oggi rimane l’invocata scappatoia di chi si accorge di averla sparata troppo grossa e per evitare guai tenta di vestirsi un abito che non è suo. E’ stato lo stesso Bierce a lasciarci una (grandiosa) definizione di ciò che sarebbe diventata, vituperio. Ossia:

“la satira come viene messa in pratica dagli ignoranti e da tutti coloro che soffrono di gravi deficienze di intelligenza e di umorismo”.

Ai Simpsons non si può rivolgere quest’accusa. A certi loro epigoni sì. A tutti, però, quella d’aver lanciato un pugno di terra sulla fossa di un genere letterario ancestrale.

@barbadilloit

Giovanni Vasso

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