Difendiamo Napoleone Bonaparte dalla furia iconoclasta della cancel culture

In Francia c'è chi contesta le celebrazioni del condottiero transalpino in nome del politicamente corretto

Napoleone

Gabriel Attal, portavoce del governo francese, ha definito Napoleone Bonaparte “una figura importante nella nostra storia” e pertanto il bicentenario della morte sarà commemorato il 5 maggio venturo. Le modalità dei festeggiamenti, voluti dallo stesso presidente Emmanuel Macron, saranno annunciate nelle prossime settimane. Ma l’iniziativa ha suscitato la disapprovazione dei sacerdoti della cancel culture, perennemente lesti nel denigrare le grandi figure della storia per non aver ossequiato i loro piccoli moralismi: accusano, infatti, l’imperatore di aver ripristinato la schiavitù nelle colonie, abolita nel 1794 dal governo rivoluzionario, e finanche di essere “misogino”, per via delle norme del codice civile del 1804 che ponevano la donna in soggezione al marito; come se fosse opportuno giudicare con gli occhi dell’oggi i fatti del passato – e come se nelle altre nazioni dell’epoca funzionasse in modo tutto del tutto dissimile.

Una figura maestosa

Senza mezzi termini, intendiamo respingere tale ondata di fango, gettata da personalità piccine contro un gigante, e riaffermare la grandezza di Napoleone Bonaparte. La sua figura si erge maestosa, a cavallo tra due secoli, dei quali rappresentò una mirabile sintesi, e ne possiamo ancora scorgere la luce abbagliante gettata sull’avvenire. Egli ricompose una nazione frantumata dal vortice della rivoluzione e dallo scontro delle fazioni; riorganizzò la macchina statale ponendo le basi della moderna amministrazione; mise ordine nel campo del diritto ponendo fine all’anarchia delle fonti che perdurava da secoli; stabilì un nuove ordine nobiliare, forgiato dal fuoco delle battaglie e riconosciuto dalla lealtà negli impieghi civili, definito non più sul principio della cessione di porzioni di sovranità e di poteri pubblici come nel Medioevo feudale, ma – romanamente – attraverso la concessione di titoli che premiavano il servizio prestato alla comunità; nessuna uguaglianza ideologica, ma un partire tutti allo stesso livello – “uguaglianza di fronte alla legge” sancita dal codice – con un successivo organizzarsi di gerarchie fondate sul merito. E subito si attirò l’ostilità (manco a dirlo) dei trafficanti e degli speculatori: “Il Primo Console sentiva una naturale ripugnanza per gli affaristi: si era fatto un obbligo – scrisse E. de Las Cases nel “Memoriale di Sant’Elena” – di praticare principi diversi da quelli dei tempi del Direttorio. […] quasi subito, si vide anche circondato dalle mogli di fornitori, tutte graziose ed elegantissime: particolarità entrambe che sembravano di rigore nella condotta di tutti gli affaristi per il buon esito delle speculazioni. […] fu deciso di non ammetterle nell’ambiente delle Tuileries”. E mantenne salda la posizione, vincendo con la sua fermezza tutte le sollecitazioni: “Questo cambiamento di metodi […] così contrario a quanto prima succedeva, menò scalpore”.

L’idea di giustizia contro gli speculatori

Non hanno mai perdonato all’Imperatore questo suo rigido senso di giustizia. I fornitori, gli incaricati d’affari, gli speculatori di borsa erano una “spina per la nazione” – Napoleone li qualificava nel suo sdegno “un flagello ed una lebbra”: “L’Imperatore ci espresse la sua opinione che nel mondo degli affari, questi avventurieri del denaro, questi accaparratori di ricchezze improvvise, fatte senza scrupoli – fornitori, agenti di borsa, speculatori di tutte le risme – erano numerosissimi a Parigi e nel Paese. Formavano con la loro potenza plutocratica, con la vasta rete delle loro clientele, un pericolo grave, causa di disordini e di intrighi. Forti delle loro alte relazioni, abili nello strappare favori, avevano screditato il Direttorio, e pretendevano di dirigere il Consolato, sicuri di riuscire per la preminenza che si erano acquistati nel rilassamento generale e nella corruzione dei pubblici poteri, cessato l’impeto e l’entusiasmo della Rivoluzione”. Mai nessuno aveva parlato così chiaro. Uno dei più notevoli fatti del Consolato, fu la lotta intrapresa contro questa nuova aristocrazia del denaro, che riteneva spregevole: “[…] non volli mai conferire ad alcuno di loro cariche od onorificenze; ma con un controllo energico la misi in tali condizioni da impedire ogni ingerenza nel governo”.

A mezzo del controllo severo nelle pubbliche amministrazioni e l’esame diligente dei conti, con l’aiuto del Consiglio di Stato incaricato di stendere le relazioni, portava a galla le magagne e a quel punto i colpevoli invocavano un accomodamento, piuttosto che lasciarsi inquisire, e talvolta sborsavano ingenti somme. Napoleone sapeva bene che costoro, in certi ambienti parigini, creavano contro di lui rancori vivacissimi e lo additavano come “despota e tiranno” (notate qualche corrispondenza?), ma egli proseguiva imperterrito per la sua via, perché era sicuro di adempiere un dovere sacro a vantaggio della nazione, che alla fine doveva essergli grata di averla liberata, seppur per un breve momento, da queste “avide sanguisughe”. E a tale proposito, osservava: “Gli uomini non mutano mai. Gli speculatori disonesti agirono per il passato così, e faranno sempre lo stesso. Però ho la coscienza che in nessun periodo della monarchia vennero colpiti con più giusta e decisa severità, come lo furono invece da me”.

Tra guerre e pace

Anche i rimproveri per l’eccessiva inclinazione alla guerra sono da rispedire al mittente. Con la Pace di Amiens (1802), infatti, egli credette in buona fede che le sorti della Francia e dell’Europa fossero stabilite una volta per tutte, dopo dieci anni di sanguinose battaglie, e che la guerra terminasse definitivamente: “Fu il gabinetto inglese a riaccenderla: questo solo è colpevole di fronte all’Europa, di tutti i flagelli che sono seguiti, esso solo ne è responsabile”. Uno dei più grandi problemi che affrontò fu la riunione, la concentrazione di popoli che erano stati dispersi, sgretolati dalle rivoluzioni e dalla mala politica: “io avrei voluto fare di tutti questi popoli, un unico organismo”. E con un tale seguito di popoli riuniti, sarebbe stato entusiasmante procedere verso la posterità e la benedizione dei secoli: “io mi sentivo degno di questa gloria!”. In quella condizione, si sarebbero avute più possibilità di giungere all’unificazione delle leggi, dei princìpi morali, delle opinioni, dei sentimenti, delle vedute e degli interessi. Forse, allora, sarebbe stato permesso sognare, per la grande famiglia europea, “una federazione come quella degli Stati Uniti o come quella delle anfizionie della Grecia”: “Quale prospettiva allora di forza, di grandezza, di godimenti, di prosperità! Quale spettacolo grande e magnifico!”.

Ebbe geniali intuizioni, certamente ben consigliato, nell’organizzazione delle architetture politiche e statuali: nella Costituzione dell’anno VIII troviamo un sistema piramidale che favoriva il coinvolgimento della popolazione a tutti i livelli; nella Repubblica Italiana fondata nel 1802 concepì un ordinamento quasi pre-corporativo, ove le assemblee politiche fondamentali si articolavano nei tre collegi dei dotti, dei commercianti e dei possidenti, cui poi si unì, col Regno d’Italia, un Senato con membri a vita. E anche l’unificazione politica italiana deve molto all’imperatore: arrivò a maturazione proprio in quel periodo la concordia dei princìpi e delle leggi, quella del pensiero e del sentimento. L’annessione all’impero del Piemonte, di Parma, della Toscana, di Roma, “io la vedevo solo come fatto temporaneo con l’unico scopo di sorvegliare, garantire e far progredire l’educazione nazionale degl’Italiani”.

Tutto questo perdemmo con la sconfitta del Bonaparte: un’Europa unita nella federazione di popoli liberi, faro del mondo, ove le nazioni avrebbero potuto sviluppare le proprie potenzialità evitando gli scontri e i disastri del secolo successivo. E infine, un monito ai posteri che suona di spaventosa attualità: “Il primo sovrano, che in mezzo alla prima grande mischia abbraccerà in buona fede la causa dei popoli, si troverà a capo dell’Europa intera, e potrà tentare tutto quello che vorrà”.

*Autore della prefazione al volume “Storia di Napoleone” (Iduna, 2020)

Gabriele Sabetta

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