Perché lanciarsi in questa ricerca? La domanda invero ce la siamo posta anche noi quando tentavamo di spingerci per le vie impervie di Monte Sant’Angelo e i sentieri innevati della Foresta Umbra; e ne abbiamo avuto risposta solo dimenticando i ritmi frenetici della quotidianità, provando a ricostruire un dialogo creativo con la terra e il cielo, con gli alberi e le pietre. Se non è stato difficile orientarsi tra i boschi della Murgia, non nascondo la fatica accumulata sulle vie ghiacciate del Gargano.
Senza alcun intermezzo (il tempo a disposizione non ce lo concedeva: dovevamo fuggire alla prepotenza dell’imbrunire) abbiamo cambiato rotta diverse volte per raggiungere la zona più interna del Parco nazionale, sforzandoci di comprendere le indicazioni dei passanti e il groviglio confuso dei cartelli: la Foresta Umbra copre quindicimila ettari di terreno, le entrate sono disparate e trovare quella più favorevole è stato possibile solo dopo una lunga perlustrazione.
Alla fine, siamo riusciti a raggiungere la foresta dopo un saliscendi continuo tra i monti; ma a giudicare dal panorama -un inanellarsi inarrestabile di effetti cromatici incantevoli- siamo stati felici di dirci sulla via del ritorno che forse ne era valsa la pena. Oltre gli automatismi della città c’è un mondo che sta morendo, che raccoglie la nostra eredità, le nostre tradizioni paesistiche e -quindi- culturali: e addentrarsi nel bosco, percorrere la china ripida della montagna permette di liberarsi dal pantano consumista e dai veleni subdoli della tecnica per riconnettersi al flusso elementare della terra e del cosmo.
“Con i pretesti dell’utile, dello sviluppo economico, della cultura, il progresso in realtà distrugge la vita, l’aggredisce in tutte le sue forme, taglia i boschi, estingue le razze animali, fa sparire i popoli primitivi, deturpa e deforma il paesaggio con cartelli pubblicitari e avvilisce quel poco che ancora lascia degli esseri viventi, ridotti come bestiame da macello ad una semplice merce, ad oggetti a disposizione di un’illimitata fame di bottino”.
E l’eco stentorea delle sue parole rimbomba tuttora, dopo oltre un secolo, nell’intreccio nodoso dei sentieri; e quasi pare un monito di fronte alla minaccia incombente suffragata (tra le altre cose) dall’incalzare irrefrenabile del disboscamento feroce insieme ai fumi dell’urbanizzazione incontrollata.
Sarebbe tuttavia inefficace, se non inconsistente o addirittura fuorviante, prospettare la battaglia futura cavalcando l’onda dello sterile naturismo, privo di esiti altri che non siano quelli della facile evasione dalle gabbie asfissianti del grigiore cittadino, della volontà di un appagamento puramente compensativo rispetto agli squilibri -manifesti- della modernità. Non sarà un reinventato “luddismo” a capovolgere gli assetti imperanti.
Al di là della fruizione ricreativa e accidentale degli spazi naturali, bisognerebbe invece immaginare il panorama paesaggistico e l’eredità paesistica come il frutto di un’armonia primigenia tra uomo e terra: che si estrinseca in opere, realizzazioni e costruzioni coerentemente integrate; e che in tal senso rappresenta la fisionomia originaria del popolo, racconta dei suoi costumi, delle sue tipicità. Il territorio dunque scandisce con questi segni i tratti propri di una civiltà e della sua storia, dei simboli e dei riti che l’hanno nutrita e sostanziata; esso allinea organicamente chi lo vive e lo difende a una coscienza comune, a una comune consapevolezza che proietta il suo sentire intimo nel paesaggio, cui imprime una forma, potenzia di un significato ulteriore. E allora quale la giustificazione, quale il senso valoriale della nostra avventura? Chiarirlo non è semplice. Possiamo dire che vi è un’impellenza inderogabile di risposte, di nuovi e più vivaci propositi: per rimodulare i paradigmi e ridisegnare le prospettive, e tornare finalmente a parlare con un linguaggio di verità.
“Tu non sai dove la strada ci porta,
solo che noi andiamo insieme.
Tu come noi hai sentito il fuoco
e il forte vento soffiare”
*Il reportage è stato composto con Luca Indellicati