I 90 anni di Francobaldo Chiocci visti da Paolo Isotta

Il Maestro napoletano (in uno dei suoi ultimi articoli) celebra il compleanno del gigante del giornalismo non conformista

Gianmarco e Francobaldo Chiocci

Ricordo benissimo la prima volta che parlai con Francobaldo. Capitò dopo una “prima” del San Carlo di Napoli: quarantacinque anni fa. I nostri tavoli, da “Ciro a Santa Brigida” (che non esiste più) erano contigui; non credo egli provenisse dal mio stesso luogo. Osai rivolgergli la parola: per me era già un mito, un mito di quelli forti; e aveva già pubblicato i libri su Padre Pio, su Donna Rachele, sull’India. Sferzanti e terribili, ma al tempo stesso con una mitezza tutta sua. Non godeva nell’attaccare gli altri, nel far loro male. Ero da un anno critico musicale de “Il Giornale”, per la quale testata è passato anche Gian Marco, con la sua fragorosa inchiesta sulla casa di Montecarlo di Gianfranco Fini.

“Maestro, mi permette di salutarLa? Mi chiamo Paolo Isotta …” “Ma che Maestro e Maestro, tu sei un bravissimo collega!”
Mi concesse di fare un tavolo solo. E caddi subito affascinato dal suo eloquio torrenziale ma, ripeto, fondamentalmente mite.
I Chiocci sono una famiglia patrizia eugubina. Quando fui per la prima volta in città, su suo invito, nel maggio del 2017, per la “Festa dei Ceri”, alla quale assistemmo dai suoi privilegiati balconi affacciati sulla Piazza Grande (a destra il Palazzo dei Consoli), mi accorsi che il carattere urbano e quello degli abitanti di Gubbio è più vicino al carattere marchigiano che all’ umbro. Una gentilezza diffusa, un lasciar vivere. Era giorno festivo, quello precedente la festa, ma la direttrice del Museo, quando le dichiarai che ero uno studioso “giunto apposta” (quest’ornamento era una mia pura aggiunta), me lo fece aprire affinché
contemplassi un documento fondamentale per la storia della lingua latina, le Tabulae Eugubinae che davvero tenevo a contemplare.
Poi, la casa di Francobaldo. Ha quel che di rustico insieme e aristocratico che posseggono solo le case dei veri signori; anche nella semplicità del ricevere, ché per il numero degli ospiti non ci si poteva sedere, occorreva ricorrere al buffet.
In tutti quegli anni Francobaldo era stato l’instancabile colonna de “Il Tempo”, quotidiano lentamente declinante. (Poi lo prese in mano, da direttore, Gian Marco, e la curva discendente s’interruppe). Aveva fatto inchieste pericolosissime: dall’India, dall’Irlanda durante la guerra civile, dall’Africa; era stato il primo a proclamare l’innocenza di Enzo Tortora, quando tutti erano servilmente schierati con la magistratura. Senza mai abbandonare quel tono elegante, seppure i temi affrontati richiedessero un enorme coraggio. Francobaldo ha scritto anche un libro sulla fine del cosiddetto “inviato speciale”. Che poi significa la fine del vero giornalismo. Ecco perché non posso non affermare ch’egli resterà sempre un esempio per la professione; che, salvo qualche caso isolato, non esiste più. Intanto, con quella gioia e quel senso dell’umorismo dei quali è portatore, festeggiamo i suoi novant’anni.

Paolo Isotta

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