Cultura (di P. Isotta). Centocinquanta anni dell’Aida, dell’amore (impossibile) ai tempi delle Piramidi

La grandezza di Giuseppe Verdi rifulge nella fama eterna di un capolavoro la cui storia è il trionfo dell'inverosimile

Gli anniversarî musicali più importanti di questo 2021 sono il centocinquantenario della prima esecuzione dell’Aida al Cairo (dicembre; in Europa, alla Scala, l’Opera debuttò il successivo febbraio, e ciò a Verdi davvero importava). I padri della vicenda narrata in musica furono più d’uno, dall’egittologo francese Auguste Mariette al raffinato librettista Antonio Ghislanzoni. L’epistolario del Maestro con lui mostra che Verdi era un metricologo pressoché scientifico. Se si segue la vicenda della nascita del capolavoro e poi dei suoi primi allestimenti si coglie un desiderio di verisimiglianza storica spinto all’eccesso: scene, costumi, taluni, e bellissimi, caratteri arcaistici della musica.

Ma occorrerebbe farsi una domanda di fondo. La storia è quella di un ufficiale egiziano, Radamès, capo dell’esercito. Egli è perdutamente innamorato – nel senso moderno e, vorrei dire, borghese, dell’amore – di una schiava etiope, Aida, e per lei perderà l’onore e la vita, oltre che la promessa del trono che il Re gli fa offrendogli in sposa la figlia Amneris. Ora, abbiamo noi idea di che fosse l’amore quattromila anni fa in una società complessa, classista, razzista, come quella egizia? Poteva un uomo appartenente alla casta superiore innamorarsi (sempre che l’amore come lo concepiamo noi esistesse: credo che incominci con la civiltà greca ed era per giunta preferibilmente tra un uomo e un ragazzo)? E lo poteva di una schiava, per giunta appartenente a quella ch’era ritenuta una razza inferiore?

Il valore musicale e drammatico dell’Aida non è qui in discussione. Anzi, essa è, insieme col Guillaume Tell di Rossini, colle Vêpres siciliennes dello stesso Verdi, coi Troyens di Berlioz, e con il Don Carlos, sempre di Verdi, il più bello dei Grand-Opéras mai scritti. Nonché uno dei capolavori del teatro musicale, con la sua alternanza di grandiosità e intimismo. Peraltro, il teatro musicale è il regno dell’inverisimiglianza. Come fanno Dorabella e Fiordiligi (Così fan tutte di Mozart) a non riconoscere nei due stranieri che si presentano loro travestiti i due amanti lasciati pochi minuti prima? Su casi analoghi si potrebbe scrivere un libro. Ma quello dell’Aida mi sembra basilare, fondamentale, tanto da impedire quasi alla baracca di tenersi in piedi.

Ciò è possibile non solo di fronte allo splendore e alla raffinatezza della musica di Verdi, ma di fronte all’aura magica da essa creata sì che un velo si pone davanti al nostro intelletto e ci impedisce di pensare alla storia, e alla Storia; e alla coerenza drammatica. Mi pare, infatti, che l’Aida come Opera meriti un articolo a sé, che intendo scrivere. Ma se si volesse sintetizzarla in una formula, potremmo dire: credo sia il massimo caso di un testo di teatro musicale che con i mezzi stilistici più raffinati (in certi casi, sofisticati) perviene alla massima popolarità presso ogni genere di pubblico.

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*Da Il Fatto Quotidiano del 4.2.2021

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Paolo Isotta*

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