Itaca? C’è chi legge Marcello Veneziani e preferisce il viaggio per la ri-fondazione

Itaca o Troia? Nessuna delle due. Preferisco Lavinio. Non è forse Virgilio che Dante incontra sulle soglie dell’Inferno?

Subito dopo le tre fiere?  Non è forse Virgilio la guida? Non è forse Virgilio l’anello di congiunzione tra mondo pagano e mondo cristiano? Tra mondo antico e mondo moderno?  Lasciamo Ulisse e seguiamo Enea…

L’Eneide comincia così: “Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris
Italiam, fato profugus, Laviniaque venit
litora, multum ille et terris iactatus et alto
vi superum saevae memorem Iunonis ob iram;
multa quoque et bello passus, dum conderet urbem,
inferretque deos Latio, genus unde Latinum,
Albanique patres, atque altae moenia Romae.
Musa, mihi causas memora, quo numine laeso,
quidve dolens, regina deum tot volvere casus
insignem pietate virum, tot adire labores
impulerit. Tantaene animis caelestibus irae?”

Prendo in prestito proprio un capitolo di “Vivere non basta” di Marcello Veneziani: “Sul viaggiare e sul tornare” (pag. 37)

Da cosa sfuggi, Lucilio? Perché ti allontani di corsa? Sfug­gi alla morte, sfuggi alla vita, sfuggi a qualcuno o a qual­cosa o cerchi qualcuno o qualcosa? Perché sei vagante, di cosa sei vacante? Di quale esuberanza trabocchi o coltivi un indicibile terrore? (…)

Viaggiare è un esercizio costante che tiene sveglia la no­stra coscienza, è un misurarsi col mondo che ravviva la no­stra intelligenza e rafforza l’animo nostro nelle avversità e negli imprevisti, nelle curiosità e nei paragoni. Non distrae, non lenisce i dolori, come tu dici, e tantomeno ci libera da quel che noi siamo, ma certo fa capire con l’esperienza chela vita è più ricca, più varia e più sorprendente di quel che pensiamo stando ancorati a un museo di abitudini; ci sono ancora tante cose da fare, tanti mondi da conoscere, tante idee da pensare prima di chiuderci in un triste e rancoroso abbandono. Se partire, come l’orgasmo in amore, è un pic­colo e breve morire, viaggiare è un piccolo e breve rinasce­re al mondo, A poppa smuore il paesaggio, a prua risorge.

Il viaggio è il paradigma della felicità, La vita si svolge nel segno della continuità, come la natura che non fa salti ma procede per gradi. Il viaggio segna invece la discontinuità, l’uscire dall’ordinato ripetersi dei giorni e dei luoghi. Così è la felicità, l’irruzione di un evento o di uno stato che non sono ordinari. La felicità come il viaggio, come la festa, e la fiaba, e il sogno, e il divino, si manifesta nella discontinuità. La vita ha bisogno di continuità per svolgersi, ma è la discontinuità a darle un senso.

(…) Mi piace sentirmi viandante solitario ma so che in realtà viaggio sempre in carovana con loro. Mi capita a volte di cogliere aspetti dei luoghi con i loro occhi più che con i miei, so cosa desterebbe la loro attenzione e allora mi adatto al loro sguardo per appagare, mio tramite, la loro curiosità. Così sento frusciare al mio fianco il battito d’ali della loro lieve felicità e ospitando quella breve letizia me ne sento partecipe. Avverto un soffio di gratitudine che si tramuta in gioia di esaudire. Nel viaggiare, la mia vita singolare si stempera nel cosmo e i miei occhi si liberano dì quel che è personale e diventano gradualmente occhi delle stelle che osservano la terra. È la vita che guarda se stessa tramite me. Il viandante più puro è uno specchio e uno scrigno del cosmo. Lo specchio per riflettere le bellezze evidenti, lo scrigno per custodire i tesori nascosti.

Ma io amo viaggiare anche per un’altra, più intima ragione: perché so che alla mia casa d’origine prima o poi tornerò, rivedrò i miei cari, riprenderò le mie abitudini, riscoprirò le bellezze nostrane e domestiche che la lontananza avrà acuito nella mia mente; e riporterò nella mia sede i frutti delle esperienze di quel viaggio in terra straniera. Il viaggio mi farà accrescere l’amore per la mia patria, la sua lontananza mi farà avvertire la sua mancanza e cogliere il valore e il sapore di quella vita. Quel che indichiamo come la nostra patria, e che amiamo di un amore tenero e aspro, comunque intenso e verace, è per noi un luogo fatale, perché il destino ci volle nativi in quel luogo e cresciuti in quel posto del mondo. Perché allora dovrei ritenere che ogni luogo si equivalga e non convenga perciò né partire né amare la nostra patria? A cosa conduce il tuo discorso, al dì là delle tue nobili intenzioni e del tuo saggio comportamento, cosa accade a chi segue le tue parole senza seguire la tua condotta? A non partire, perché il mondo non può cambiare il nostro animo; e a non amare il luogo in cui resti, perché la nostra patria è ovunque e nessuno speciale legame ti unisce a quel luogo. Se permetti, Maestro, per una volta divergo da te e preferisco pensare e volere U contrario: partire per conoscere e poi per tornare, amando viaggiare e amando poi ritrovare la patria nativa. II mondo intero è la mia patria, tu dici, e io aggiungo: perciò voglio viaggiare, per conoscere la mia patria ovun-que. Il mondo intero è la mia patria, tu insisti, e io dico di sì, il mondo è la mia patria, ma a partire dalla mia terra natale e dal luogo che mi vide nascere non per caso, ma per sorte, come tu stesso insegni. E mi vide crescere nell’amo­re di un padre e di una madre, nell’affetto dì fratelli e parenti, nelle cure di precettori e domestici, per non dire degli amici carissimi. Lasciami coltivare la passione dei viaggi e insieme la passione di far ritorno a casa, la mia patria nativa o adottiva.

(…) In fondo non si viaggia che per ritornare. Agli dei e alle pietre si addice la stasi, alle macchine e agli animali si ad­dice l’andare, agli uomini invece si addice il tornare. Perché non riusciremmo mai a stare pietrificati in un luogo, non siamo motori immobili come il dio d’Aristotele. Non siamo né bestie né dei, diceva Io stesso filosofo di Stagira. La stasi e il divenire incessanti non possono essere il no­stro destino di umani. Non apparteniamo alla stirpe divina che contempla il mondo dal suo immobile trono di pietra mentre i millenni scolorano il cosmo. E non siamo ruote che vanno continuamente, che macinano sentieri e frumen­ti; né siamo cavalli da corsa, felini o segugi da caccia, in moto perpetuo. Siamo piuttosto creature mediane, fra gli dei e gli animali come tra l’essere e il divenire. Agli uomini è consono tornare, covando una patria dentro di sé; perché è umano orientarsi nel mondo, abitare con gli occhi e con la memoria, ricordare e prevedere. Per stare o per an­dare non c’è bisogno d’intelligenza, per tornare sì. Il ritorno si addice all’intelligenza che sa orientarsi, che sa colle­gare e percorrere in avanti e a ritroso le strade della vita. Nel ritorno è la vera saggezza. Ma non si torma mai nella terra perduta o nel tempo perduto. Non ci bagniamo mai due volte nella stessa acqua del fiume, dice il tuo Eraclito, ma non ci immergiamo mai due volte nemmeno nello stesso istante del tempo fluente. Vorremmo piuttosto tornare all’origine, a un luogo oltre i luoghi, a un tempo oltre i tempi, dove abita l’essenza della nostra vita- II conato che muove al ritorno è un anelito vibrante, nutrito di amore e mancanza, ricordo e impazienza.

Quel conato è un sentimento straordinario sul piano in-teriore, perché suscita l’arte e la poesia, esatta gli affetti, ci restituisce l’amore del tempo vissuto e dei luoghi più cari. Muta in rancore quando s’impone agli altri la sua restaurazione. Il conato del ritorno non indica solo il desiderio di ritrovare un luogo caro e lontano come accade in Ulisse, ma designa anche la struggente passione di un tempo perduto che non si può più ritrovare, come accade in Enea.

La nostra Itaca diventa allora il nostro passato e non solo il luogo da cui ci separammo. È curioso pensare, Maestro, che, nella mente nostra, il tempo e lo spazio si riversano l’uno nell’altro, s’inseguono e reciprocamente sconfinano, a volte perfino combaciano. Di entrambi cogliamo la pros­simità e la distanza.

Due esempi mitici descrivono l’epica del viandante: il viaggio di Ulisse, il vincitore che sogna il ritorno, e il viaggio di Enea, il vinto che sogna di rifondare la patria perduta- Ulisse ed Enea partono dalla medesima distruzione, la città di Troia, di cui uno è artefice e l’altro è vittima. Ulisse vuole tornare nel regno delle sue origini, dove abita la sua famiglia, dove ha sede la sua stirpe, vuole riannodare la trama del tempo perduto. Enea, invece, quel mondo lo ha ormai alle spalle, divorato dalle fiamme, e per lui non resta che salvare il salvabile, suo padre, suo figlio, i pena­ti, e partire verso ignota destinazione. Anche il suo viaggio, come quello di Ulisse, è un ritorno: perché anch’egli vuoi ricostruire la casa, vuoi rifondare la città perduta, e la catastrofe che si lascia dietro non lo conduce all’oblio ma al sacro rispetto della memoria, incarnata dal vecchio padre Anchise. Enea si carica sulle spalle il peso paterno della memoria; porta in salvo suo padre, ormai consunto, caricandoselo addosso, come suo padre avrà fatto con lui quando era bambino- E porta con sé la consorte e suo fi­glio con l’intento di consegnare a lui, Ascanio, le chiavi in­visibili della città futura, la città da fondare.

Dopo il lungo viaggio, Ulisse riesce a fare ritorno, e lo strazio di un regno mutato, in preda a impostori e sciacalli, viene alla fine cancellato. Ulisse ripristina in età senile la vita di un tempo, ritrova la moglie, il suo letto piantato nella terra, suo figlio, la sua servitù, il suo cane fedele, la matrice del luogo. Quel che non torna è la sua gioventù, e quella di lei; quel che li aspetta è una morte serena, dopo aver compiuto l’opera. La nostra sorte, Maestro carissimo, somiglia più a quella del pio Enea che a quella dell’astuto Ulisse. Non abbiamo da tornare ad alcuna patria lontana, la nostra Itaca è sommersa e bruciata, come Troia; non possiamo riportare in vita chi non c’è più, i nostri vascelli hanno lasciato per sempre la casa in fiamme. E allora non resta che fondare la nuova città, ma muniti della memoria, con i simboli, le tracce e gli eredi di quel mondo scomparso. Dico di Roma, devastata fin dentro il suo cuore, a cui necessita oggi una seconda nascita che somiglia a una nuova fondazione. Non parlo tanto dell’Urbe e delle sue province, parlo della Roma segreta e ulteriore che si legge all’inverso. Roma orma d’Amor.

Ci tocca viaggiare per fondare e non per restaurare quel che è cadente, per generare e non per ripristinare quel che si spegne. Propiziare la nascita e non limi tarsi a salvaguardare gli ultimi lasciti dell’estrema vecchiaia. Di questa voglia di nascere e di fondare vedo scarsa traccia nei fori e nei cuori. Quel viaggio di ritorno non è ancora cominciato.

(…) Ma dietro tutte le ragioni più profonde che spingono in superficie a partire, ce n’è una che mi pare la più tenace e più universale. Penso, Seneca, che chi non si ferma mai, come io facevo fino a poco tempo fa, tenti solo di sfuggi­re alla morte e ai suoi annunci, come la vecchiaia e la ma­lattia. Allora ti muovi in continuazione come un bersaglio mobile, per non farti colpire d ai dardi avvelenati della sor­te. Prova a prendermi se ci riesci, morte; e si comincia a correre come fanciulli. Si diventa bambini per non invec­chiare. Anche se viaggiando aumentano poi i rischi e gli agguati della vita. La verità, pensavo, è che la stasi si ad­dice ai morti e ai perfetti, e noi non siamo né fra gli uni né fra gli altri. Siamo imperfettamente, momentaneamen­te vivi. Cioè erranti, nei duplice senso di chi sbaglia e di chi vaga. L’erranza è segno d’inquietudine e carenza. Ma ora, ti assicuro Maestro, la mia vita da viandante si è pla­cata nelle braccia di una serena compiutezza, l’azione cede alla contemplazione, e vorrei che questa condizione rag­giunta fosse una conquista della saggezza e non una per­dita dell’agilità. Forse, più semplicemente, non voglio più sfuggire alla morte.

Ti saluto, Seneca, con gratitudine, perché i viaggi mi­gliori li ho compiuti con te, senza partire di casa, sul dor­so della filosofia.

Credo che in questo capitolo ci sia tutto… Tornare a Itaca, cacciare i Proci ma non avere più nessuno per ricominciare e aspettare la morte… oppure rimanere a Troia? È tutto molto affascinante, sì è vero… cacciare i mercanti dal tempio… oppure essere uomini in piedi tra le rovine… ma… sono entrambi senza un futuro… sono messaggi per chi si rassegna e non ha più voglia di lottare… per chi non ha più voglia di osare e di credere… in queste due scelte non c’è futuro… non c’è speranza… mentre il mondo ha bisogno di speranza e di linee guida… i giovani di maestri e di guide… che li proiettino verso il futuro… e il futuro è edificare… è costruire… è ricominciare… Saranno forse le mie origine bucoliche.. che Virgilio canta meravigliosamente… sarà la mia stirpe… la stirpe sabina… che anche con tutte le contaminazioni rivendico orgogliosamente come mie… che mi fanno scegliere Enea e Virgilio… mi fanno scegliere Lavinio!

Roberta Di Casimirro

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