Cultura (di P. Isotta). Beethoven, a 250 anni dalla nascita del Raffaello della musica

La grandezza di un genio europeo liberata da luoghi comuni e fraintendimenti

Uno dei peggiori, e più frequenti, errori che su Beethoven si commettono, è quello di considerarlo un compositore romantico, se non addirittura colui che aprì trionfalmente la strada al Romanticismo musicale. Torniamo a una vecchia questione: sono le arti, tutte le arti, allineate secondo il medesimo Zeitgeist (espressione di Goethe che si traduce “Spirito del Tempo”), ovvero esistono nel ductus stilistico e formale scarti di pochi, o molti decennî? Mario Praz aderiva per lo più alla prima opinione, ma lo faceva per certe strade sue misteriose e deraglianti, sicché riusciva a dimostrarti qualunque cosa. Era un tale genio che sovente i suoi libri ti attraggono più per lo stile che per l’oggetto. Esistono (anzi, crescono) miriadi di cretini che trattano Bach come il più tipico compositore barocco. È, invece, colui che inconfondibilmente corona l’edificio del Barocco musicale, ma nello stesso tempo inaugura lo Stile Classico; oltre ad aver inventato e realizzato in modo non intellettualistico armonie che chiameresti apertamente “romantiche”, anzi, “tardo-romantiche”, e le attribuiresti a Schumann o a Franck. Di fronte a certe sublimità dello Spirito (mi scuso per il termine così antiquato) la periodizzazione è impossibile.

Facciamo un esempio. Se si ricorre a Goethe si può quasi dimostrare qualsiasi cosa. Tranne alcune principalissime. Ci sono opere che esprimono in modo più netto la sensibilità e lo stile romantico? Si capisce. I dolori del giovane Werther, del 1774, e il Primo Faust, finito nel 1806. E il Secondo Faust, lasciato incompiuto per la morte nel 1832, che cos’è? Per certi versi, un’anticipazione grottesca delle peggiori deviazioni di quello che (sempre errando) si chiama Tardo Romanticismo. Ma nel suo insieme è una delle cose più alte, una vera e propria rivendicazione del Classico e del Mito, con tratti – in ritardo rispetto al Zeitgeist – del Neoclassicismo. Nel Primo Faust trovi (e dietro vedi lui, Goethe, con un lieve sorriso ironico) persino del Hyeronimus Bosch. Nel Secondo, insieme con una fantasmagoria cosmica e a volte enigmatica (le Madri!), distingui nettamente la grazia di Canova. Infine, il più facile dei paragoni: Goethe ascoltò con fastidio, e poi pregò Zelter di non suonarglieli più, alcuni dei Lieder coi quali il ragazzo Schubert incorona la sua poesia. Gli piacevano i compositori “semplici”, che non osavano aggiungere alla declamazione melica il senso, fosse pure il suo più profondo senso. Sola eccezione: Mendelssohn.

Se veniamo alla musica, il discorso generale non cambia. Ci sono Sinfonie di Haydn, specie quelle appartenenti agli anni Settanta del Settecento, che ti paiono nettamente “romantiche”. Non parliamo del Preludio sinfonico alla Creazione, non a caso sottotitolato Rappresentazione del Caos (1796-98). Che del Caos ti dà la più plastica raffigurazione in musica. Direi che ci troviamo di fronte a una specie di Romanticismo portato a invalicabili confini di forma, stile, linguaggio. Non fosse che, ad analizzare la pagina neanche con un microscopio tanto perfezionato, ti accorgi che al di sotto di tale Caos è nascosta, con arte impagabile, una Forma Classica: chi non sa leggere la musica deve intuirla, il leggere facilita ma la vera legge te la dà l’ascolto. Molti direttori d’orchestra, specie delle nuove leve, non capiscono né leggendo né ascoltando, meno ancora dirigendo.

Occorre partire da un assunto: le periodizzazioni e la simultaneità di ethos fra le arti sono da evitarsi, perché quasi sempre scivolose e lontane dal centro. Poi, e fa proprio al caso nostro: la categoria interpretativa da preferirsi, per la musica, è che esiste una sola epoca, divisibile, se si vuole, in paragrafi, chiamata epoca classico-romantica. Incomincia, al più tardi, con Haydn: e dico al più tardi perché una delle ossessioni del cosiddetto Romanticismo è quello di rifare Bach; e ci cascano tutti, Beethoven, Cherubini, Schubert, Schumann, Liszt, Wagner: pensiamo solo alla Sinfonia de I Maestri Cantori! E si termina, quest’epoca straordinariamente unitaria, con Richard Strauss, Othmar Schoek, Max Reger, compresi. Nella tarda maniera di Beethoven vi sono cose di un’arditezza insuperabile (il Quartetto in Do diesis minore, op. 131 (1825-6), le ultime Sonate, la Grande Fuga) incomprensibili se non le si vede come un disperato anelito a Bach e insieme a lande incognite e quasi più intuite che delineate. E le Variazioni Diabelli a quale epoca, a quale stile, ascriveresti? Sono al di fuori del tempo, e dello spazio.  Per scrivere i più ardui passaggi contrappuntistici della Missa Solemnis, composta fra il 1819 e il 1823, egli si mise a studiare i contrappuntisti del Cinquecento. Poi accade che, sin dai suoi ultimi anni, i Maestri delle generazioni successive guardano a lui con un anelito altrettanto disperato. Tutto, e anche le opposte correnti, sembra provenire da lui.

Nella sua opera esistono di gran tratti canoviani, da certi più esibiti con eleganza (Le creature di Prometeo: si tratta pur sempre di un Balletto) ad altri che puoi definire solo celesti: dal Triplo Concerto (1803-4) al Concerto per violino (1806) alla Quarta Sinfonia (1806-7) – che di tutte è quella più cara al mio cuore –  al Quarto Concerto per pianoforte – la sublimità stessa. Alle opere “Neoclassiche” debbo aggiungere una in “stile sublime”, la Scena e Aria per soprano e orchestra Ah! Perfido, che porta l’impronta di uno dei suoi Maestri, il ridicolizzato da cattiva letteratura e cattivo cinema, e invero grande, Antonio Salieri (forse del 1796), e una che allo “stile sublime” e straziante – la solitudine del Cristo –  affianca grazie vocali e coloristiche prettamente italiane, l’Oratorio in tedesco Cristo al Monte Uliveto (1801-3): e sempre a Salieri (e all’operista Haydn: la strepitosa Armida) torniamo, se certe colorature dell’Angelo fanno pensare addirittura a un castrato allievo di Rossini: all’epoca, di undici anni, pur se già grande Autore delle sei Sonate a quattro. Peraltro Beethoven accolse nel 1822 l’unico compositore italiano che allora l’adorasse ed eseguisse a memoria le Sonate pianistiche, sempre Rossini, con un malgarbo e un’alterigia che giustificano l’epiteto di “selvaggio” col quale veniva definito in società. Solo perché le sue Opere tragiche riscotevano successo quanto le comiche; per lui gl’Italiani, ciarlatani e superficiali, dal Comico non dovevano, non potevano uscire.

Una delle cause dell’equivoco Beethoven-Romanticismo è proprio loro, dei Tedeschi. Se ascoltiamo una Sinfonia diretta da Felix Weingartner o da Hans Pfitzner (in proprio grande compositore) scappiamo a gambe levate. Rapsodicità, mancanza di senso della forma, cambiamenti degli stacchi di tempo continui e immotivati. Non oso pensare a che cosa dovesse essere il Beethoven diretto da Mahler, se potessimo ascoltarlo; ma Dio in questo ha voluto risparmiarci. Neanche Furtwängler fa una gran bella figura. Il sommo Nikisch se la cava abbastanza, ma non è che la sua Quinta Sinfonia vorremmo ascoltarla una seconda volta.  Fa eccezione Richard Strauss, perfetto in tutto. Il vero compositore Beethoven glielo abbiamo insegnato noi: Giuseppe Martucci, quasi napoletano (era nato a Capua ma a Napoli si formò: e vi tornò quale direttore del Conservatorio dopo esserlo stato a Bologna), al pianoforte e sul podio. E Arturo Toscanini, sul podio, che in parte da Martucci proveniva. Quando ascoltiamo qualcuno che lo accusa di freddezza (e per molti anni l’ho fatto anch’io!), dobbiamo pensare, e ascoltare, a che cosa Toscanini si trovasse di fronte. Forse eccedeva un po’ in distacco: ma era una reazione superperdonabile. Ascoltiamo, a confronto, i suoi contemporanei tedeschi dei decennî del Novecento a partire dai Quaranta. Dobbiamo rifugiarci in Ungheria, con Fritz Reiner, del quale l’erede fu Georg Solti, autore della più bella incisione del Fidelio, insieme con quella di Karl Böhm, che io conosca. E, sempre in Ungheria, George Szell e Ferenc Fricsay, prematuramente scomparso.

Ora voglio (non per primo) togliermi una piccola soddisfazione. Ancor oggi incontri cretini che ti spiegano che la parte pianistica del Triplo Concerto è molto facilitata perché scritta su misura per l’arciduca Rodolfo, discepolo e insigne mecenate del Maestro. E già, era un Cardinale per “motivi di famiglia”! Era un uomo elegantissimo e raffinatissimo. Ora, il ruolo pianistico del Triplo Concerto “facilitato” non è. Ma soprattutto, il porporato (che non poteva certo esibirsi in pubblica sala, al massimo in un intimo salotto con ospiti super selezionati) è anche il dedicatario del Quarto e del Quinto Concerto e di due Sonate, il solo nominare le quali ti fa rizzare i capelli in testa: quella che porta il sottotitolo Les Adieux e la terrificante ultima, a tale forma dal Maestro donata, l’op.  111 in Do minore (1821-2).  Se le interpretava per sé, a casa, Sua Eminenza: ma questo per comprendere quale musicista fosse, Sua Eminenza: tale dal 1819, ma nello stesso anno ricevette la consacrazione sacerdotale e quella arcivescovile. Per taluni, tempus irreparabile fugit. Campò infatti poco, quest’uomo che dal solo ritratto ufficiale vedi come delicato e sensibile fosse: nato a Pisa nel 1788, morì a Baden nel 1830. Quale sede vescovile, gli venne assegnata Olmütz, in Moravia. La gigantesca Missa solemnis, uno dei massimi esempî di volontà di potenza raggiunti dall’arte, era stata progettata per tale intronizzazione dell’Arciduca. Le sue dimensioni sono tali che sarebbe impossibile inserirla nella liturgia; peraltro essa venne terminata quattro anni dopo la cerimonia. Rodolfo non fece una piega: l’eccelsa opera resta legata al suo nome. Come legato resta un altro capolavoro, il Trio in Si bemolle maggiore op. 97, che continua a venir designato come Trio dell’Arciduca. Rodolfo fu allievo di Beethoven anche per la composizione; e infatti compose. Da quanto fin qui si è detto, definirlo un semplice “dilettante” è impossibile. Ma nessuno sa come fosse la sua musica né quale livello attingesse. Viviamo assediati dalla produzione di inutili tesi di laurea: che io sappia, nessuna è stata dedicata a questo tema, comunque interessante e importante.

Il resto – il grosso – della produzione di Beethoven è Classico puro. Tanto è vero che se vogliamo fare un parallelo extratemporale (oggi i colti lo dicono “sincronico”), relativo alla Forma, allo Stile e al Linguaggio, là ove quasi tutti lo paragonano a Michelangelo, io lo accomuno a Raffaello: quello “eroico” delle Stanze e de La Scuola d’Atene, perché la rifinitura, la grazia, insieme con il culto della grandezza classica, sono più di Raffaello che di Michelangelo. La grazia di Beethoven non viene abbastanza considerata, ma pesa quanto la sua potenza. Esiste poi un’opera insieme possentemente classica e neoclassica nel grandioso Fugato – e guarda sempre a Bach – l’Ouverture Die Weihe des Hauses (1811), titolo che si traduce Per l’Inaugurazione del Teatro, e che esattamente questo significa e per ciò, su commissione, venne composta. In parentesi: presso i veri Sommi distinguere, quanto al valore, fra opere scritte per libero impulso e su commissione, è impossibile. Senonché, esiste da noi una pletora i quali, anche per snobismo (!) traducono, con grottesca letteralità, La consacrazione della casa. Ho detto tutto.

Aggiungo un altro parallelo sulla pittura. Riguarda due casi di Tiziano, del pittore di ottantasei anni e del trentenne. L’ottantaseienne si dice dipingesse L’incoronazione di spine (parlo di quella della Alte Pinakothek di Monaco) con i pennelli attaccati con spago alle dita, tanto soffriva per l’artrosi. Potrei subito affermare: Beethoven ha scritto la Missa solemnis e la Nona Sinfonia essendo totalmente sordo. E comunque, la prima risposta al pseudo-parallelo sarebbe solo che il sommo artista adatta la tecnica alle condizioni nelle quali si trova, così potenziandola. Intendevo invece sostenere che il pathos estremo concepito da un uomo prossimo alla morte porta a una tecnica estenuata, ove la distinzione fra linea e colore si attenua miracolosamente proprio perché il fatto narrato è così infame e inconcepibile che il pittore è costretto a inventarsi strumenti tecnici inauditi per darcene l’immagine. Beethoven fa qualcosa di assai simile nel Quartetto in Fa minore op. 95: lo strazio da esprimere (tirar fuori, in senso etimologico) è così profondo che le arditezze armoniche, una forma che mescola linea e colore (la vedreste mai nel Quartetto in La minore op. 132, o in quello op. 135?) ti sembrano le connaturate naturalmente. Un caso ancor più impressionante: quando, nel Fidelio, i prigionieri laceri, abbruttiti, vengono tratti per qualche istante alla luce – da mesi non la vedevano – Beethoven ricorre ad armonie insieme rarefatte e ardite, a lungo immobili, da esprimere non solo il soffrire dell’innocente detenuto, ma pure l’abbagliamento dei suoi occhi.

Vengo al caso di Tiziano giovane. Certo, dieci anni di differenza, specie a quei tempi, erano un abisso. Altro produceva un trentenne, altro un ventenne. Ma il ventenne Beethoven è un caso a sé. Pigliamo un quadro se altri mai luminoso, pieno di gioia e persino di licenza: il Bacco e Arianna della National Gallery (1520 circa). E del caso a sé, il ventenne Beethoven, pochi si interessano. Abbiamo due brani strettamente connessi, scritti ambedue a Bonn. Il primo è la Cantata per la morte dell’imperatore Giuseppe II, l’altro, immediatamente successivo, la Cantata per l’intronizzazione di Leopoldo II. La precocità di Mozart è leggendaria; ma se vogliamo, tra tante cose mirabili, trovare davvero il Sublime, dobbiamo ricorrere all’Opera Seria (in italiano) Idomeneo. Qui, col massimo che un ventisettenne avesse fin lì dato, si situa il paragone con il ventenne. Le due Cantate vennero perdute, passarono per varie mani, vennero ascoltate solo nel 1881 e nel 1885, ed edite nel 1888. La grande ombra di Brahms presiedette alla risurrezione. Ma perché non vennero eseguite nel tempo e nell’occasione prescritti? Si consideri che il padrone (arcivescovo) di Beethoven a Bonn era pur egli un Asburgo. Ma il disprezzo e l’esecrazione onde Giuseppe II, tiranno e velleitario insieme (lo chiamano Illuminista!), era circondato, fecero sì che la Cantata in sua memoria venisse rifiutata dovunque. E la Cantata per Leopoldo, il quale era anche il padre del Cardinale Rodolfo, venne trascinata a fondo dalla prima. In quella per Giuseppe Beethoven ebbe un bel simulare, con mezzi artistici straordinarî, il compianto, il buio della morte: non ci credette nessuno, non ci volle credere nessuno. Se pensiamo a quel che fecero i compositori sovietici alla morte di Stalin, ch’era ben peggio di Giuseppe, vediamo che a volte il dolore a comando non riesce, come invece riuscì a Beethoven. Restano seppellite nel suo mausoleo. Fatti interni al comunismo sovietico.

La Cantata per Leopoldo è tutta percorsa da una luminosità addirittura arcana: sempre succede che, a un cambio di sovrano, ci s’illude sia per nascere una nuova era, felice e prospera. Come la Cantata sorella, non ha nulla di quell’impaccio, ovvero di quella facile facilità, che sono i lati opposti nei quali può cadere un artista esordiente. Sono somma musica e basta. La pubblicazione e l’esecuzione viennese risanarono antiche inimicizie, ne fecero nascere di nuove. Ci si sarebbe aggiunto anche Wagner se non fosse morto nel 1883; e forse sarebbe accaduto l’inosabile, il vederlo abbracciarsi con il critico musicale Hanslick, suo persecutore.

Non ho parlato dei Quartetti, delle Sonate, del Fidelio (per me il culmine della sublimità in fatto di teatro musicale). Ogni volta ciascuna sembra il nec plus ultra del genere. Come si sarà visto, ho a stento le forze per tentare un articolo; un libro su Beethoven, campassi altri mille anni, non riuscirei a scriverlo.

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*Da Il Fatto Quotidiano del 16.12.2020

Paolo Isotta*

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