Immigrazione, Europa e ricatto della compassione

Il barcone che trasportava i 596 immigrati (103 donne e 62 minori) e le operazioni con cui ieri le navi della Marina Militare li hanno tratti in salvo, in due diversi interventi a sud di Lampedusa

di Andrea Scarano

I fenomeni migratori che riguardano l’Europa presentano caratteristiche differenti rispetto a quelli del passato più e meno recente: analizzarne le molteplici sfaccettature, classificare ed interpretare dinamiche spesso invisibili e difficilmente afferrabili, comprenderne la reale natura prima di assumere posizioni autorevoli che consentano di governarle paiono, oggi, obiettivi irrealizzabili.

“L’ospite e il nemico – La Grande Migrazione e l’Europa”, libro di Raffaele Simone edito da Garzanti nel 2019, è focalizzato su alcuni interrogativi  – quale tipo di mentalità si celi dietro i nuovi arrivati, quali conseguenze sociali e politiche deriveranno per gli europei dall’impatto con culture diverse – che ruotano attorno ad un quesito più generale, solo apparentemente astratto e “scolastico”, ovvero se sia possibile un approccio scevro da pregiudizi ideologici al tema. Come tutti gli avvenimenti che alterano l’aspetto, i modi di vita e le sorti dell’ambiente ricevente, la Grande Migrazione – l’imponente flusso di provenienza africana ed asiatica iniziato nel 2015, anche se l’evento non è precisamente collocabile dal punto di vista temporale  – “innesca” due narrazioni contrapposte.

La prima (“Europa colpevole” o terzomondismo) sostiene che il fenomeno – storicamente inevitabile, eticamente giusto e conveniente sotto l’aspetto economico per l’Occidente – sia una risposta tardiva a forme di colonialismo e schiavismo predatorie, efferate e disumane che sopravvivono oggi con modalità diverse rispetto a quelle dei secoli scorsi. Il risentimento dei paesi di partenza viene alimentato dai sensi di colpa (diffusi specialmente tra intellettuali, movimenti cristiano-sociali, pacifisti, no global e femministi portatori delle istanze egualitarie ed umanitarie del cosiddetto “Club Radicale”) degli stessi europei, che da un lato hanno “plasmato” – sulle macerie del tragico Novecento – un continente mite, ospitale ed accogliente, dall’altro sono rimasti inermi difronte alla progressiva diffusione di uno “spirito perdonista” succube delle pressioni esercitate nella produzione legislativa e nell’amministrazione della giustizia (basti pensare ad alcune realtà del Regno Unito presso le quali vere e proprie corti islamiche si pronunciano su questioni di famiglia e liti di natura economica basandosi sui principi della sharia) dai fautori virtuosi e solidali di un Mondo Nuovo, destinati a sicura felicità.

Da questo punto di vista la migrazione viene totalmente negata come problema, configurandosi – al contrario – come naturale e benefica: impiegati in attività che gli europei non vogliono più svolgere, gli immigrati, specialmente quelli di fede islamica – che assurge a religione degli oppressi e dei diseredati, bisognosi di speciale protezione e di “discriminazioni positive” – sono i nuovi lavoratori che incrementeranno le entrate fiscali e previdenziali dei paesi di arrivo, assicurando le pensioni dei nativi anziani. In fuga da chi li opprime in patria, essi rappresenteranno un modello per i cittadini europei che, per una sorta di “inversione catartica” dell’onere di adattamento, dovranno conformarsi al loro stile di vita.

L’opzione contraria (“Grande Sostituzione”) – fondata sull’idea secondo la quale la popolazione europea sarà gradualmente rimpiazzata dagli immigrati, in maggioranza neri e musulmani che crescono in modo esponenziale a livello demografico e si riversano nell’area dell’Europa occidentale dalle più solide tradizioni democratiche (principalmente Regno Unito, Francia, Germania e paesi scandinavi) – non trova solo significative suggestioni in romanzi molto discussi perché prefiguranti la presa incruenta del potere ad opera del partito islamico (come “Soumission” di Michel Houllebecq).

La diaspora, facilitata dai meccanismi della cosiddetta “migrazione a catena” – cioè dalla tendenza degli immigrati musulmani a sposare donne che vivono nei paesi di origine e che acquisiscono, così, il diritto d’ingresso in Europa – aumenta con un effetto moltiplicatore nei paesi verso i quali il flusso si è già rivelato più massiccio. La tendenza che Badiou ha definito “desiderio d’occidente” è, peraltro, indotta dai media digitali, che diffondono un’immagine delle Istituzioni dei paesi riceventi come entità funzionanti in modo generoso e gratuito rispetto a quelle degli stati di provenienza degli allogeni. Questi ultimi usufruiscono quasi gratuitamente dei benefici del Welfare anche nelle condizioni di illegalità e clandestinità e sono generalmente poco qualificati sotto l’aspetto lavorativo.

Se da un lato mancano studi e dati specifici a supporto dell’assunto che identifica la componente migratoria siriana come quella dotata di un livello di istruzione e specializzazione più alto rispetto alle altre, il nuovo “proletariato nomade” – composto in gran parte da colf, badanti, manovali o persone di fatica, al massimo piccoli commercianti – entra spesso in conflitto, dall’altro, non solo con i lavoratori nativi meno specializzati, ma anche con quei piccoli e medi ceti impiegatizi che ingrossano da tempo le fila dei cosiddetti “perdenti della globalizzazione”.

Costantemente ignorato o sottovalutato, l’atteggiamento generale dei cittadini europei – in maggioranza contrari ai flussi migratori – viene etichettato come razzista, ma è in realtà soprattutto xenofobo. Simone insiste opportunamente sulle differenze di due termini spesso confusi: il primo è un costrutto culturale derivante da un pregiudizio ideologico, che diffonde l’odio verso gruppi di persone considerate inferiori e alle quali viene negata la dignità dell’essere umano; il secondo consiste nella diffidenza tipica – che non degenera in forme di violenza fisica, ma se non compreso può diventare esplosivo – dello stato di paura, elemento primario della natura umana piuttosto ricorrente nell’agire politico, risposta emotiva, naturale ed immediata ad una minaccia – attuale o potenziale – rivolta contro il proprio benessere e che attecchisce in contesti caratterizzati da profonde differenze religiose e culturali.

I governi europei

Gli esecutivi europei, per lo più totalmente impreparati di fronte agli eventi, adottano come unico dispositivo i postulati della prima opzione precedentemente descritta: un atteggiamento umano ed emozionale (Marco Tarchi ha parlato di “ricatto della compassione”) che non di rado si traduce in una limitazione dei diritti e degli usi consolidati dei nativi per non urtare le sensibilità dei nuovi arrivati, in evidente contraddizione con una gestione disordinata dell’ospitalità materiale, inefficace sin dal processo iniziale di identificazione e raccolta, facile bersaglio delle proteste popolari e terreno sicuro dei successi elettorali di formazioni più propriamente populiste che di destra. L’autore sottolinea i costi esorbitanti a carico dei sistemi di Welfare europei, in particolare quelli dell’allestimento dei campi profughi – sui quali non a caso si concentrano gli appetiti delle organizzazioni mafiose, che in gran parte già gestiscono il business dei cosiddetti “viaggi della speranza” – e quelli dei minori stranieri non accompagnati, ai quali fanno da contraltare i lucrosi guadagni dell’economia sommersa e di basso livello del caporalato, che beneficia di manodopera ridotta in schiavitù.

Quando le “improvvise” emergenze di sbarchi e naufragi finiscono sotto la lente di ingrandimento dei mass-media costringendoli a correggere il tiro, i governanti affrontano la questione non solo in un’ottica emergenziale di corto respiro – per definizione non accompagnata da una visione d’insieme che tenga conto, per esempio, delle mutazioni già avvenute o in atto nel contesto geopolitico (basti pensare al ruolo di paesi come la Turchia, che utilizza i migranti come strumento di pressione e ricatto per ottenere concessioni dall’Unione Europea oppure della Libia, sempre più zona nevralgica delle partenze verso il Vecchio Continente) –  ma incorrendo in un errore piuttosto diffuso da più parti: quello di indagare i fenomeni collettivi confondendoli con la sommatoria di singoli casi individuali o, peggio ancora, riducendoli ad essi.

Partendo da alcune riflessioni del politologo Giovanni Sartori incentrate sul carattere necessariamente limitato dell’ospitalità – che dovrebbe preservare il sé della comunità nativa ed essere condizionata da fattori come le distanze socio-culturali – l’autore ridimensiona lo stereotipo che accomuna la Grande Migrazione a quelle storiche che facevano rotta dai paesi europei verso le Americhe e l’Australia: la prima, infatti, si dirige verso aree già densamente popolate e non rientra – ed è questa la principale differenza con le seconde – nelle pianificazioni e nei programmi specifici di richiesta di manodopera dei governi dei paesi riceventi, fermo restando che oltreoceano uno dei principali criteri diffusi in materia è, da sempre, la selezione dei migranti all’ingresso.

Ricorrendo a forme di ripudio di aspetti basilari della propria cultura, considerata ormai sorpassata e deplorevole, formazioni di sinistra sia moderata che alternativa e radicale appoggiano sia le visioni del “politicamente corretto” – incentrate sull’inibizione di qualsiasi riflessione sull’immigrazione tramite l’automatica accusa di razzismo e sulla subordinazione deferente ad esigenze, aspettative e pretese delle comunità immigrate – che le principali misure indotte dai processi della globalizzazione: eliminazione delle frontiere, concessione universale di diritti e cittadinanza, accoglienza basata sul principio di inclusione illimitata (con l’appoggio determinante della Chiesa cattolica), conseguente annientamento delle specificità, delle differenze, delle tradizioni, degli usi e dei costumi dei nativi.

Il flop del multiculturalismo

Simone si sofferma sulle varie forme di convivenza, a cominciare da quella che – eretta a programma politico in paesi come Germania e Stati Uniti e largamente condivisa perché foriera di un futuro armonioso – si è rivelata un chiaro fallimento, certificato molto prima di recenti avvenimenti di cronaca: il multiculturalismo. Esso considera ciascuna comunità alla pari, non assoggettandone alcuna alla cultura di altre. In teoria gli immigrati convivono a fianco dei nativi: nella realtà costituiscono, con sempre maggior frequenza, una sorta di società parallela (Amartya Sen insiste sui caratteri del “mono-culturalismo plurimo”), ovverosia comunità isolate, “auto-ghettizzate” ed avulse dai contesti circostanti, che tengono a distanza gli estranei e conservano proprie abitudini, usanze e norme, pretendono diritti speciali difformi da quelli di tutta la cittadinanza attivando una logica di “rivendicazioni infinite” e covano al proprio interno pulsioni che, tramite un’interpretazione distorta dell’Islam, sfociano in attentati terroristici, come avvenuto in Francia e in Belgio nel 2015.

E’ un segno dello spirito del nostro tempo il fatto che questo libro, incentrato per ammissione dell’autore più sull’analisi che sull’interpretazione sintetica di un fenomeno molto complesso, sia rapidamente finito nel dimenticatoio dopo aver riscosso un effimero interesse iniziale. La sempre più soffocante pervasività di un pensiero unico omologante che annichilisce qualsiasi possibilità di dibattito su argomenti considerati tabù è il riflesso del venir meno – ormai parecchi anni or sono acutamente individuato come tendenza da Milan Kundera – di quella secolare peculiarità tipicamente europea che consisteva nel mantener vivi capacità di spirito critico e volontà di ricerca della propria identità dalle quali discendeva, attraverso il confronto, il dibattito e la conflittualità, una pluralità di idee, opinioni e convinzioni che oggi sono sempre più qualità rare.

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