La luce non muore mai: tra Sacro e profano, la continua attualità di Caravaggio

Il critico Riccardo Rosati presenta la mostra ispirata a Caravaggio in corso a Ladispoli (Roma)

Un celebre dipinto di Caravaggio

Nel Centro Arte e Cultura di Ladispoli è in corso la mostra, ispirata al Caravaggio, di alcuni tra i più grandi pittori contemporanei della scena artistica nazionale (fino al 17 settembre). Qui il testo del catalogo dedicato, curato da Riccardo Rosati, intellettuale e scrittore, nonché firma di Barbadillo

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Ci sono alcuni personaggi nella storia del Bello (amiamo mettere la maiuscola a questa parola, come ci ha insegnato il nostro Maestro Francesco Sisinni), i quali, malgrado conosciuti dai più, fosse anche solo per sentito dire, restano un mistero. Nondimeno, le loro opere le abbiamo tutti viste e riviste. Figure come queste possono essere sintetizzate con un aforisma del caustico scrittore austriaco Karl Kraus (1874 – 1936): “Artista è soltanto chi sa fare della soluzione un enigma”.

Michelangelo Merisi (o Amerighi, 1571 – 1610), detto Caravaggio, rientra appieno in tale categoria. Perennemente alla ribalta in mostre e documentari televisivi, il sommo pittore lombardo non è così “scontato” come si vorrebbe far credere. Cresciuto alla bottega del Cavalier d’Arpino (al secolo, Giuseppe Cesari), il giovane Merisi si distinse subito per la sua unicità, arrivando presto alla Corte Papale, con quel Paolo V Borghese che lo protesse in varie occasioni, visto che le sue rappresentazioni non solo uscivano dalle modalità canoniche nel ritrarre temi sacri, ma anche e soprattutto per la inquietudine che quelle tele comunicavano. Sarebbe a dire, una passione improvvisa, folgorante, che trascende, ieri come oggi, l’apprezzamento puramente razionale, per arrivare dritto al nervo scoperto dell’Io. Questa sorta di “miracolo” emotivo in Caravaggio non lo si deve però a codici misterici o rimandi alchemici. Tutt’altro, egli scelse di utilizzare l’elemento senza il quale la nostra vita cederebbe all’oblio: la luce! 

Mai come adesso, la società deve tutto alla osservazione, benché perlopiù superficiale e distratta, come è stato intelligentemente fatto notare anni or sono da Giovanni Sartori nel suo importante volume Homo Videns (1997) [1], ove si stigmatizza la “videobanalità” della moderna comunicazione. Pertanto, un artista immediatamente riconoscibile come Caravaggio è divenuto in buona misura iconico: entrando in una sala di un museo o di una esposizione, l’occhio viene subito catturato da una sua opera, la quale si distingue chiaramente da quelle degli altri pittori che la circondano. Questa potenza visiva il Merisi la sviluppò con metodico impegno, e non certo con quell’estro “selvaggio”, per alcuni addirittura folle, come sovente viene descritto. Invero, nel raccontarlo si è da tempo presa la deteriore abitudine di associare la sua arte con la sua vita a dir poco movimentata, allo scopo di rendere Caravaggio maggiormente appetibile per il gusto istintivo del fruitore medio contemporaneo. Insomma, lo si è voluto commercializzare, renderlo bohémien, persino pop! Qui giunge il significato di questa mostra; ossia, nel ripercorrere per l’appunto in chiave pop le sue tele, si offre al pubblico non una mera e sterile provocazione, bensì la opportunità di scoprirle sotto una veste diversa, divertita, ma non frivola. 

L’intento del Curatore, Pier Luigi Manieri, è infatti quello di palesare quanto le immagini presenti nelle pitture di Caravaggio siano sì iconiche, ma non tanto per la loro audacia nel mostrare santi dai piedi sporchi e donne di malaffare abbigliate alla maniera della Vergine Maria. Al contrario, si vuole dimostrare come i suoi quadri ci risultino continuamente attuali grazie a delle straordinarie campiture di nero, letteralmente squarciate da raggi di luce che vanno a illuminare, quasi fossero degli spot del cinema, il tema sacro narrato da Caravaggio. Un esempio lampante ne è la Flagellazione di Cristo (1607 – 1608, olio su tela) del Museo di Capodimonte a Napoli. Ammirando il dipinto, pare effettivamente di avere davanti un fotogramma di un film, di una scena in movimento catturata in un fugace frammento. La luce cala dall’alto, a esaltare il biancore dell’incarnato del Cristo martirizzato. Non abbiamo bisogno di interpretazioni di sorta, poiché il tutto ci arriva con immediatezza, come se questa immagine parlasse un linguaggio a noi familiare. 

Va ricordato, tuttavia, che la fortuna di Caravaggio è un fatto abbastanza recente. Se è attualmente condiviso da critica e spettatori il considerarlo un indiscusso Maestro, ciò lo si deve all’acume di Roberto Longhi – a nostro avviso il più grande storico dell’arte del XX secolo con Federico Zeri – il quale, dopo secoli di anonimato, diede il via all’inizio degli anni ‘50 a una sua sistematica rivalutazione. Prima di allora, il genio del Merisi restava sottostimato, giudicato come un “peculiare” autore italiano che aveva appreso dai fiamminghi la lezione del chiaroscuro. Non si comprese in realtà che Caravaggio volle introdurre una prospettiva nuova, con cui si prefiggeva di esprimere le forme tramite la luce, dialogando in modo diretto col “guardante”, per dirla con Wilhelm Worringer (1881 – 1965) [2]. Il buio ricorrente nelle sue opere costringe a concentrarsi sui protagonisti rappresentati, guidando lo sguardo come in una inquadratura. 

Inoltre, se è corretto individuare talora nei suoi lavori un posizionarsi al limite tra Sacro e profano, questo comunque non dovrebbe essere inteso come un desiderio di stupire, ma piuttosto un tentativo di comunicare eludendo la retorica che connotava la iconografia religiosa dell’epoca. D’altronde, il Divino nel Merisi è manifesto e vigoroso, magari “messo in scena” in modo teatrale, ma rimane pur sempre solenne, benché riportato alla dimensione umana, offrendosi costantemente attuale. Del resto, sono assai pochi i quadri come la Madonna dei Palafrenieri (1606, olio su tela, Galleria Borghese, Roma) capaci di rendere icastico il prevalere di Cristo sul Demonio. Come in una istantanea fotografica, Caravaggio coglie il singolo gesto, donando movimento a una immagine statica. 

Il grande John Ruskin (1819 – 1900) sosteneva che l’Arte è tale quando si “mostra onestamente” [3], senza necessità di filtri o interpretazioni, come avvenne durante quel Medioevo a lui così caro. Domandiamoci quindi: ammirando una opera di Caravaggio, sentiamo la necessità di consultare una guida? Di chiedere delucidazioni a un esperto? No. Ci è sufficiente guardare, “riattivare la lettura visiva del mondo”, come soleva dire Italo Calvino. L’occhio si sente orfano quando privato della luce, e si esalta per lo stimolo conferito dai contrasti. Michelangelo Merisi questo lo aveva compreso bene, dipingendo per un oggi che non termina mai. Una pittura, la sua, che trionfa sulla diacronia. 

Le note

1 Cfr. Giovanni Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero, Laterza, Roma-Bari, 2011. A causa della televisione, spiega Sartori, per la prima volta nella storia l’immagine predomina sulla parola, andando così ad alterare completamente i meccanismi di comprensione dell’essere umano. Il risultato è una regressione e atrofizzazione intellettuale, la quale rende l’individuo oramai incapace di distinguere il virtuale dal reale; il falso dal vero. 

2 Su questo, rimandiamo al suo stimolante volume, Astrazione e empatia (“Abstraktion und Einfühlung“), pubblicato per la prima volta nel 1908. Cfr. Wilhelm Worringer, Astrazione e empatia, Torino, Einaudi, 2008.

3 La monumentale, per qualità critica ed erudizione, riflessione di Ruskin sull’Arte e l’Architettura la si ritrova pienamente nel suo The Stones of Venice (1851 – 1853, 3 voll.). Cfr. John Ruskin, Le pietre di Venezia, Milano, BUR Rizzoli, 1990.

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Riccardo Rosati

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