La polemica. Il paradosso della destra ricostruita dai responsabili del disastro

Alleanza nazionaleDiversi anni fa, mi capitò di scrivere, con incredulo spirito profetico, che il tumore che avrebbe corroso la destra italiana si chiamava Neofeudalesimo: per meglio dire, anzi, indicai proprio in quella particolare forma di anarchia, tutti contro tutti, che caratterizzò l’ultima fase dell’età feudale, il modello cui si stava uniformando Alleanza Nazionale. Gli elementi di contatto tra i due fenomeni erano, effettivamente, parecchi: una patente debolezza del vertice, un’interpretazione personalistica ed utilitaristica del potere, una gestione bottegaia del territorio ed una miopissima visione politica, che non andava al di là del proprio particulare, e di un malinteso epicureismo, per cui valeva solo l’oggi e qualunque progetto che non riguardasse l’immediato si sarebbe dovuto considerare inutile o, peggio, dannoso. Di qui, va da sé, discesero molti mali.

Questa divisione in satrapie alimentò odi interni, delusione nei militanti, un atteggiamento sostanzialmente manicheo nei confronti delle altre componenti e, soprattutto, un’atmosfera di sospetto e di minaccia tra le persone: l’esatto contrario, insomma, di quel senso di fratellanza e di fiducia che era stato il marchio di fabbrica dei militanti di un tempo. Inoltre, l’evidentissima smania del potere per il potere, l’esclusione da ogni attività di chiunque potesse fare ombra al capetto di turno, l’imbarazzante disinteresse verso qualunque forma di valore culturale o civile e, infine, un diffuso nepotismo, finirono con l’allontanare le persone perbene, di libera opinione, disinteressate, a tutto favore di un nugolo di manutengoli, di yesmen sempre pronti a riverire e ad applaudire il proprio feudatario di riferimento. Anche di qui discesero molti mali.

La destra perse del tutto la sua dimensione spirituale e valoriale (nonostante il continuo richiamo proprio a questa dimensione, usato dai vari dirigenti come specchietto per le allodole), per divenire una specie di orgia strapaesana: il “partito degli onesti” diede a molti l’impressione di essere stato, un tempo, immune da ruberie ed abbuffate semplicemente perché nessuno gli faceva posto intorno alla greppia. Adesso che era stato sdoganato: pancia mia fatti capanna! I giovani non vennero visti come una risorsa da coltivare: i dirigenti del domani. Vennero, piuttosto divisi in due grandi categorie: quelli disposti a seguire, pedissequamente, il leader, che andavano cresciuti alla scuola del “magnamagna”, e quelli bravi ma un po’ troppo indipendenti, che bisognava bloccare sul nascere: ne deriva, oggi, la sostanziale assenza di una classe dirigente nuova, con cui sostituire quella vecchia. I vecchi, dunque, non si sono rivelati indispensabili, quanto insostituibili a causa del deserto che loro stessi hanno creato dietro di sé. E, di questo passo, si potrebbe andare avanti ancora a lungo, ma credo di aver dato un’idea, almeno approssimativa, di come veda io la presente situazione. Incapacità, inaffidabilità, autoreferenzialità, egoismo, arroganza: queste le caratteristiche fondamentali di una generazione di politici che ha dissipato un formidabile patrimonio umano ed ideale, oltre ad avere precipitato la destra da un miracoloso 15%, all’epoca di “Mani pulite”, fino alle percentuali risibili e ai decimali del presente.

I nomi di questi timonieri che non si sono rivelati all’altezza della situazione sono noti a tutti: La Russa, Alemanno, Storace, Gasparri e tutti gli altri, che hanno rappresentato, per decenni, correnti e correntine, divise su tutto, tranne che su di uno spasmodico desiderio di restare in sella, di fare comparsate televisive, di circondarsi di una corte di succubi e di viaggiare con auto di lusso pagate da noialtri. Come credo sia noto, insieme a diversi altri intellettuali di destra, assai più significativi di me, ho firmato il manifesto rifondativo scritto da Marcello Veneziani: l’ho firmato per stima, per affetto e per senso di appartenenza, nei confronti del mondo che esprime i nomi degli altri firmatari. Naturalmente, l’ho firmato anche e soprattutto, perché condivido alla lettera quanto Marcello ha scritto e mi domando come non si possano condividere quei concetti, per un uomo che si dica di destra e, soprattutto, come, nonostante che siano almeno due decenni che li andiamo ripetendo, a nessuno dei suddetti leader sia mai venuto in mente che, forse forse, se ne poteva tenere un pochino conto. Invece, la classe dirigente di An ha accuratamente evitato proprio quei punti: ha cancellato la cultura, ha emarginato il pensiero, ha nascosto filosofia  e spiritualità nel ripostiglio delle cose  inutili. Oggi, che la destra italiana è al lumicino, proprio ad una rinascita intellettuale e culturale dobbiamo, inevitabilmente, affidare le nostre speranze.

A chi andrà, dunque, affidata la parte politica di questa ricostruzione? La cronaca dice che, ad Orvieto, vale a dire nella roccaforte simbolo di quel Neofeudalesimo che indico come origine di ogni ulteriore disastro, si sono riuniti, come se nulla fosse, proprio quei ras che hanno causato in prima persona la catastrofica decadenza della destra italiana: ed hanno impugnato il manifesto di Veneziani, dicendosi pronti alla svolta, dediti al cambiamento. Orvieto, da cui sono partite le più formidabili bubbole della cosiddetta “Destra Sociale”: la capitale dei proclami senza fondamento, delle promesse da marinaio, dei valori e dell’identità che sono diventati lo zerbino di certa politica.

C’è da domandarsi, in primo luogo, se questi signori pensino davvero di rivolgersi ad un pubblico di deficienti: ma come, sei il primo responsabile del guaio, e ti proponi, come se nulla fosse, come il nuovo che avanza? Sarebbe come affidare la custodia del deposito di Paperone alla Banda Bassotti! E, poi, com’è che dopo una stagione lunghissima in cui, per costoro, la cultura era una seccatura, improvvisamente ne sentono l’irresistibile richiamo? Non Monsieur Reynard: stavolta davvero non attacca. Il disperato tentativo di una classe dirigente pessima di restare incollata alla sedia non troverà sponda nel sottoscritto. Non in mio nome, insomma. Io pretendo che il mio nome, che è il nome di un poveraccio qualsiasi, ma che ha sempre lavorato seriamente, senza mai chiedere nulla per sé alla politica e senza mai guadagnarci un centesimo, non venga associato a quello di questi signori: non si ricostruiranno una credibilità culturale ed una verginità politica usando come paravento la fiducia che suscitano le persone oneste e perbene. Io, con costoro, non voglio avere nulla a che fare: perciò, si facciano pure i loro schemini, le loro spartizioni ed i loro calcoli di sottopotere, ma, per favore, che non mettano in mezzo me e quelli che la pensano come me. Io ho firmato un documento che parla di cultura, di tradizione, di partecipazione, di Nazione: non l’atto di nascita dell’ennesima camarilla.

Marco Cimmino

Marco Cimmino su Barbadillo.it

Exit mobile version